Falso ideologico in atto pubblico anche per il medico che rediga attestazioni false
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Si configura il reato di falso ideologico in atto pubblico anche in relazione ad atti “interni”, laddove questi si inseriscano in un “iter” procedimentale prodromico all’adozione di un atto finale destinato ad assumere valenza probatoria di quanto in esso esplicitamente od implicitamente attestato.
Nel caso di specie, il Giudice si occupa dell’ipotesi di un medico chirurgo a cui era contestato di aver redatto falsamente una relazione, richiesta dalla direzione ospedaliera per il successivo inoltro alla Prefettura ed al Ministero della salute. Tale documento era funzionale ad un’interrogazione parlamentare riguardante un presunto caso di malasanità.
Cassazione penale sez. V del 16 novembre 2010 n. 43512
– che con l’impugnata sentenza fu confermato il giudizio di penale responsabilità di C.G. in ordine al reato di falsità ideologica in atto pubblico consistito, secondo l’accusa, nell’avere il C., nella qualità di direttore dell’u.o. di chirurgia toracica ed oncologica dell’ospedale (OMISSIS) nonchè di esecutore dell’intervento chirurgico di pneumonectomia subito da P.A.M. il (OMISSIS), attestato falsamente, in una relazione richiesta dalla direzione del suddetto ospedale per il successivo inoltro alla locale prefettura, e, quindi, al ministero della salute, in vista della sua utilizzazione per la risposta da dare ad un’interrogazione parlamentare, che il suddetto intervento si era svolto in anestesia perdurale fino all’ultimazione dell’asportazione del polmone, dandosi quindi luogo all’anestesia generale al solo scopo di eseguire una manovra di controllo circa la tenuta della sutura del bronco, mente in realtà all’anestesia generale si era dato luogo già nel corso dell’intervento di pneumonectomia, a causa di difficoltà esecutive provocate da movimenti della paziente; fatto commesso il (OMISSIS), in coincidenza con la trasmissione dell’atto in questione alla prefettura;
– che, a sostegno di tale decisione, la corte di merito, ricordato come l’interrogazione parlamentare fosse stata originata dalla riscontrata divergenza tra le risultanze della cartella clinica, da cui emergeva l’effettivo svolgimento dell’intervento operatorio, con riguardo, in particolare, al momento in cui era stata indotta l’anestesia generale, e talune notizie di stampa secondo le quali l’intervento sarebbe stato invece eseguito come poi indicato nella relazione incriminata, in applicazione di una innovativa e più vantaggiosa tecnica ideata appunto dal prof. C., osservò, per quanto di essenziale rilievo, in linea con quanto già ritenuto dal giudice di primo grado, che la suddetta relazione, nonostante fosse un “atto interno”, assumeva tuttavia rilievo pubblicistico in quanto destinata ad “impegnare la struttura ospedaliera pubblica”;
– che avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la difesa dell’imputato, denunciando:
1) “erronea applicazione della legge penale in relazione alla identificazione ed alla natura di atto pubblico del documento incriminato, non rientrando la sua redazione tra le mansioni dell’imputato”, dal momento che esso in altro non consisteva – si afferma – se non in un semplice appunto dattiloscritto con il quale l’imputato aveva fornito, su informale richiesta della direzione sanitaria, una relazione completamente atipica su di uno specifico intervento chirurgico; il che rendeva inconferente anche il richiamo, operato dalla corte di merito, all’insegnamento giurisprudenziale circa la qulificabilità come atti pubblici anche degli atti cd.
“interni”, dovendo anche questi, comunque, costituire atti tipici ovvero inserirsi in un “iter” procedimentale che metta capo ad un atto finale destinato a spiegare, nei confronti dei terzi, “effetti giuridici costitutivi, traslativi, dispositivi, modificatici o estintivi rispetto a situazioni soggettive di rilevanza pubblicistica”;
2) difetto di motivazione per mancata risposta alle deduzioni difensive con le quali si era eccepita: – 2/a) la erroneità della conclusione del tribunale, secondo cui la missiva inviata dall’ospedale al prefetto in data (OMISSIS) sarebbe un atto pubblico”, essendosi al riguardo obiettato che detta missiva era in realtà soltanto un semplice biglietto di trasmissione della relazione a firma del prof. C., privo di attestazioni proprie dell’Ente, e che non risultava inoltre accertato: se l’interrogazione parlamentare avesse o meno avuto risposta; se a tale risposta (cosa che si afferma difficilmente sostenibile) fosse da riconoscere la natura di atto pubblico; se il suo contenuto fosse stato o meno determinato dalla relazione redatta dall’imputato; – 2/b) “il travisamento dell’oggetto dell’interrogazione parlamentare”, avendo l’interrogante soltanto chiesto di sapere se nel corso dell’interveneto era stata effettivamente indotta anche l’anestesia generale, e non, in caso positivo, anche quando ad essa si fosse dato luogo, come invece si dava per acquisito nella sentenza di primo grado, per giustificare la richiesta di puntualizzazione che, al riguardo, era stata avanzata dal direttore sanitario al prof. C.; – 2/c) “la violazione del principio che vuole la sentenza correlata all’imputazione”, per avere il tribunale basato la propria pronuncia di condanna sul presupposto che l’atto affetto da falsità fosse costituito dalla missiva del (OMISSIS), mentre, secondo la contestazione, esso sarebbe stato da identificare nel dattiloscritto a firma dell’imputato intitolato “Premessa e relazione dei fatti”.
DIRITTO
– che il ricorso appare, per quanto di oggettivo rilievo, meritevole di accoglimento, in quanto:
a) deve anzitutto affermarsi che, ai fini della configurabilità del reato di falso ideologico in atto pubblico, alla stregua della testuale formulazione dell’art. 479 c.p., occorre che la falsità abbia ad oggetto fatti dei quali l’atto sia “destinato a provare la verità”, indipendentemente dalla circostanza che trattisi di taluno di quelli tipizzati nella prima parte della norma incriminatrice (fatti compiuti dal pubblico ufficiale o avvenuti alla sua presenza o dichiarazioni delle quali egli debba attestare l’avvenuta ricezione) ovvero di altri fatti che il pubblico ufficiale sia comunque chiamato ad attestare, dovendo in ogni caso riscontrarsi l’esistenza del presupposto che egli agisca “nell’esercizio delle sue funzioni”; il che equivale a dire che faccia uso di quei “poteri certificativi” che, insieme o in alternativa a quelli autoritativi, caratterizzano appunto, ai sensi dell’art. 357 c.p., comma 2, la figura del pubblico ufficiale; poteri certificativi che sono proprio quelli in relazione ai quali può, quindi, in via esclusiva, ravvisarsi la falsità ideologica, tanto è vero che questa, secondo il consolidato orientamento della Corte, non è, invece, ravvisabile, negli atti costituenti espressione dei poteri autoritativi se non nella misura in cui essi attestino anche, esplicitamente o implicitamente, la sussistenza di determinate condizioni alle quali l’esercizio di quei poteri è subordinato ed abbiano quindi, per questa parte, funzione certificativa (ved., in proposito, Cass. S.U. 3-24 febbraio 1995 n. 1827, PG i proc. Proietti ed altri, RV 200117; Cass. S.U. 28 giugno – 24 settembre 2007 n. 35488, Scelsi ed altro, RV 236867);
b) poste tali premesse, va anzitutto escluso che, come ritenuto invece dai giudici di merito, la falsità ideologica potesse configurarsi in relazione al contenuto della risposta fornita il (OMISSIS) dall’azienda ospedaliera al prefetto di Genova, per il successivo inoltro al ministero della salute, atteso che tale risposta, in buona sostanza, in altro non consisteva (come si apprende dalla lettura della sentenza di primo grado) se non in una missiva di accompagnamento, a firma del direttore generale dott. Co., della relazione redatta dal prof. C., e quindi in un atto che non poteva in alcun modo dirsi destinato a provare la verità di quanto si affermava in detta relazione, nulla rilevando in contrario che detta missiva contenesse (sempre a quanto risulta dalla sentenza di primo grado) anche la raccomandazione della lettura, in particolare, di taluni punti della medesima relazione; e, del resto, che l’atto in questione avesse funzione probatoria non risulta neppure chiaramente affermato nelle sentenze di merito, limitandosi quella di primo grado a sostenere che esso “manifestava all’esterno la posizione dell’azienda ospedaliera” e quella di secondo grado a parlare (come si è visto) di “impegno” della struttura ospedaliera pubblica; il che (ammesso e non concesso che così stessero effettivamente le cose) non equivaleva certo a dire che si fosse in presenza di attestazioni aventi oggettiva valenza probatoria, non vedendosi come il direttore generale potesse attestare di propria scienza la verità di fatti dei quali era dichiaratamente venuto a conoscenza solo sulla base di quanto riferitogli da altri;
c) va altresì escluso, a livello di principio, che possa attribuirsi attitudine probatoria alla risposta che il ministro fornisca ad una interrogazione parlamentare (risposta della cui obiettiva esistenza e del cui eventuale contenuto non si ha, peraltro, nella specie, notizia alcuna), dal momento che detta risposta si basa necessariamente su informazioni che al ministro vengono fornite dagli organi della pubblica all’amministrazione ai quali egli si rivolge, di tal che, ove tali informazioni si rivelino false, la sua responsabilità non può che essere di ordine esclusivamente politico;
d) alla stregua delle suesposte considerazioni viene quindi a rivelarsi priva di fondamento la costruzione logico – giuridica sulla quale si sono basati i giudici tanto di primo quanto di secondo grado, facendo leva sul noto e consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui il falso ideologico in atti pubblici può configurarsi anche con riguardo ai c.d. “atti interni” (tra i quali sarebbe stata annoverabile la relazione in questione); e ciò in quanto l’operatività di tale principio viene ad essere esclusa, nella specie, dalla riscontrata mancanza della condizione cui essa è subordinata, costituita dall’inserimento dell'”atto interno” in un “iter procedimentale” che metta capo ad un atto pubblico destinato ad assumere valenza probatoria di quanto in esso esplicitamente o implicitamente attestato;
e) rimanendo quindi, a questo punto, aperta soltanto la possibilità che la falsità ideologica penalmente rilevante venga confidata con riguardo alla relazione redatta dal prof C., e ed in quanto qualificabile come atto pubblico dotato di autonoma valenza probatoria e non come semplice atto interno (in conformità, del resto, al testuale tenore del capo d’imputazione; il che consente di ritenere comunque superata la denunciata violazione del principio di corrispondenza tra contestazione e sentenza), devesi rilevare come detta possibilità non risulti in alcun modo valutata dai giudici di merito e non possa essere neppure valutata in questa sede, implicando essa anche la possibile incidenza di elementi di fatto non accettabili e verificabili dal giudice di legittimità; ragion per cui non può che darsi luogo ad annullamento dell’impugnata sentenza con rinvio ad altra sezione della corte d’appello di Genova la quale, attenendosi ai principii di diritto dianzi richiamati, dovrà verificare, sulla scorta dei già acquisiti elementi di fatto o di quelli di cui ritenesse necessaria l’acquisizione, se la relazione in questione fosse o meno dotata di autonoma valenza probatoria e fosse pertanto da qualificare come “atto pubblico” nel senso richiesto dall’art. 479 c.p..
P.Q.M.
La Corte annulla la sentenza impugnata con rinvio, per nuovo esame, ad altra sezione della corte d’appello di Genova.
Così deciso in Roma, il 16 novembre 2010.
Depositato in Cancelleria il 9 dicembre 2010