Ti licenzio, ti reintegro ma non te lo dico

Tag 04 Dicembre 2013  |

 

[massima]

Laddove in seguito al licenziamento illegittimo (art. 18 dello Statuto dei Lavoratori – legge n. 300 del 1970) il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dal ricevimento del corrispondente invito da parte del datore di lavoro, è necessario verificare nello specifico se tale invito fosse sufficientemente specificato.

Il Giudice è chiamata a valutare se l’invito suddetto possa considerarsi specifico, atteso che la manifestazione di una generica disponibilità alla reintegrazione non può ritenersi sufficiente.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 27-11-2013, n. 2651

 

 

[intestaz]

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

 

SEZIONE LAVORO

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

 

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

 

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

 

Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –

 

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

 

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

 

ha pronunciato la seguente:

 

sentenza

 

sul ricorso 9149-2012 proposto da:

 

RETE FERROVIARIA ITALIANA S.P.A. C. F. (OMISSIS) (già Ferrovie dello Stato Società di Trasporti e Servizi per Azioni), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA L.G. FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato MORRICO ENZO, che la rappresenta e difende giusta delega in atti;

 

– ricorrente –

 

contro

 

P.Q. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MAGLIANO SABINA 24, presso lo studio dell’avvocato PETTINARI LUIGI, rappresentato e difeso dall’avvocato LUCCHETTI ALBERTO, giusta delega in atti;

 

– controricorrente –

 

avverso la sentenza n. 813/2011 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 07/10/2011 R.G.N. 119/2011;

 

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/09/2013 dal Consigliere Dott. LUCIA TRIA;

 

udito l’Avvocato LUCCHETTI ALBERTO;

 

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso per quanto di ragione.

 

 

 

[fatto]

1.- La sentenza attualmente impugnata, in riforma della sentenza del Tribunale di Ascoli Piceno n. 171/11 del 18 febbraio 2011: 1) dichiara che P.Q. non è stato reintegrato nel proprio posto di lavoro da Rete Ferroviaria Italiana s.p.a. (d’ora in poi:

 

RFI) in esecuzione della sentenza del Tribunale di Ascoli Piceno n. 656/04 del 22 novembre 2004 confermata dalla Corte d’appello di Ancona con sentenza n. 419/06 del 12 ottobre 2006; 2) dichiara che, in base ai suddetti titoli, il rapporto di lavoro tra le parti è proseguito fino al 21 marzo 2007; 3) condanna RFI al pagamento oltre agli accessori di legge e alle spese di lite del doppio grado.

 

La Corte d’appello di Ancona, per quel che qui interessa, precisa che:

 

a) può considerarsi pacifico che, durante l’incontro con il funzionario di RFI T. in data 6 dicembre 2004, il P. oltre a ricevere l’offerta della consegna immediata della lettera del 29 novembre 2004 venne effettivamente invitato a procedere alla reintegrazione;

 

b) la questione da risolvere si incentra, però, sui comportamenti successivi, al riguardo: 1) va escluso che possa configurarsi un rifiuto del lavoratore espresso o posto in essere con comportamenti concludenti, tali non essendo nè la richiesta di specificazioni nè la manifestazione della intenzione di volere attendere la comunicazione scritta e verificarne il contenuto con il proprio legale; 2) d’altra parte, l’ulteriore invito verbale del funzionario incaricato non rileva per la configurazione dell’inerzia del lavoratore perchè ad esso non è stato dato alcun seguito, dopo le richieste di specificazione del P.;

 

c) ne consegue che RFI deve considerarsi inadempiente non già all’invito, ma all’obbligo di reintegrazione in sè, ciò che rende irrilevante il successivo comportamento del lavoratore, visto che la mancata risposta della richiesta di specificazioni rappresenta la mancata attuazione dell’obbligo di reintegrazione, tanto più che qualsiasi inerzia è esclusa dalla successiva lettera inviata dal legale di P.;

 

d) per la determinazione della somma da liquidare in favore del lavoratore per la mancata reintegrazione si fa riferimento ai conteggi del P., data la genericità della contestazione di RFI sul punto.

 

2- Il ricorso di RFI domanda la cassazione della sentenza per tre motivi; resiste, con controricorso, P.Q..

 

Entrambe le parti depositano anche memorie ex art. 378 cod. proc. civ..

 

 

 

 

[diritto]

1 – Sintesi dei motivi di ricorso.

 

1.- Il ricorso è articolato in tre motivi.

 

1.1.- Con il primo motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 325 e 436 cod. proc. civ., in ordine ai fatti successivi alla missiva del 29 novembre 2004; b) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, mancanza di motivazione su un punto controverso della vicenda.

 

Si sostiene che nel ricorso introduttivo del giudizio il lavoratore si è limitato a rilevare l’illegittimità del comportamento di RFI derivante dall’aver inviato la lettera del 29 novembre 2004 ad un indirizzo diverso dal proprio, senza proporre alcuna censura sulla effettività della reintegra dopo l’incontro avuto il 6 dicembre 2004 con il T., Direttore Compartimentale Infrastruttura di Ancona, presso il suo ufficio, nè replicare sul punto, nel corso della prima udienza, alle osservazioni della società.

 

Soltanto in appello il P. avrebbe, per la prima volta, affermato che il contenuto della suddetta lettera e il comportamento della società successivo all’indicato incontro dimostravano che la reintegra non era mai avvenuta, modificando di conseguenza la propria domanda.

 

Pertanto, RFI ha eccepito la violazione degli artt. 325 e 436 c.p.c., in particolare sottolineando che la Corte territoriale: a) non si è pronunciata sulla propria eccezione al riguardo (mancanza di motivazione); b) ha accolto il ricorso del P. proprio sulla base delle nuove domande ed eccezioni da questi proposte (violando, così i suindicati articoli del codice di rito), fondando la decisione sull’assunto del lavoratore secondo cui l’incontro del 6 dicembre 2004 non aveva comportato un’effettiva reintegra sicchè doveva considerarsi irrilevante la circostanza che il P., dopo l’avvenuto “invito alla reintegra”, non si sia più presentato sul luogo di lavoro, lasciando trascorrere il termine di trenta giorni di cui all’art. 18 St. lav..

 

1.2.- Con il secondo motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18; b) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

 

Si rileva che, in base al richiamato art. 18 St. lav., il datore di lavoro ha soltanto l’obbligo di invitare il dipendente a riprendere il lavoro, mentre il lavoratore ha l’onere di riprendere servizio entro trenta giorni dal ricevimento dell’invito datoriale.

 

Nella specie la Corte d’appello ha riconosciuto che RFI ha adempiuto all’obbligo dell’invito, ma poi ha affermato, contraddittoriamente, di considerare il comportamento del lavoratore successivo all’incontro del 6 dicembre 2004 giustificato, pur essendo certo che il P. ha lasciato decorrere il suindicato termine di trenta giorni e si è ripresentato sul posto di lavoro solo due anni dopo, inviando nel frattempo a RFI una generica lettera del proprio legale.

 

1.3.- Con il terzo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omessa motivazione circa l’eccezione dell’aliunde perceptum.

 

La suddetta eccezione è stata formulata da RFI fin dalla memoria di costituzione in primo grado e riproposta in appello, con le relative istanze istruttorie.

 

La Corte territoriale, tuttavia, non ha esaminato l’eccezione – neppure per respingerla – e ciò ha portato ad una erronea quantificazione della somma da riconoscere al P..

 

2 – Esame delle censure.

 

2.- Tutti e tre i motivi del ricorso non sono da accogliere, per le ragioni di seguito esposte.

 

2.1.- Il primo motivo è inammissibile, per molteplici concorrenti ragioni.

 

In primo luogo, esso risulta mal formulato in quanto la ricorrente prospetta degli errores in procedendo nei quali sarebbe incorsa la Corte d’appello – omessa pronuncia sulla propria eccezione relativa alla asserita modifica in appello della domanda originaria da parte del lavoratore, nonchè accoglimento del ricorso del P. proprio sulla base degli elementi “nuovi” posti a fondamento di tale modifica – ma non invoca vizi contemplati nell’art. 112 c.p.c. e art. 360 c.p.c., n. 4, bensì fa impropriamente riferimento ad una violazione di legge e ad un vizio di motivazione (previsti, rispettivamente, dall’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, (vedi, per tutte:

 

Cass. 22 maggio 2013, n. 12514; Cass. 18 maggio 2012, n. 7871; Cass. 15 maggio 2013, n. 11801; Cass. 31 luglio 2012, n. 13683).

 

Peraltro, il motivo stesso non risulta neppure conforme al principio di specificità dei motivi del ricorso per cassazione – da intendere alla luce del canone generale “della strumentalità delle forme processuali” – in base al quale il ricorrente che denunci il difetto di motivazione su un’istanza di ammissione di un mezzo istruttorio o sulla valutazione di un documento o di risultanze probatorie o processuali, ha l’onere di indicare nel ricorso specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice di merito (trascrivendone il contenuto essenziale), fornendo al contempo alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali, potendosi così ritenere assolto il duplice onere, rispettivamente previsto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, (a pena di inammissibilità) e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (a pena di improcedibilità del ricorso), nel rispetto del relativo scopo, che è quello di porre il Giudice di legittimità in condizione di verificare la sussistenza del vizio denunciato senza compiere generali verifiche degli atti e soprattutto sulla base di un ricorso che sia chiaro e sintetico (vedi, per tutte: Cass. SU 11 aprile 2012, n. 5698; Cass. SU 3 novembre 2011, n. 22726).

 

Il mancato rispetto, da parte della ricorrente, di tale principio si desume dal fatto che il ricorso è privo di qualsiasi riferimento preciso sia al contenuto del ricorso introduttivo del giudizio sia ai successivi atti processuali che, nella prospettazione di RFI, sarebbero stati male interpretati o ignorati.

 

Tanto più che, per consolidato e condiviso orientamento di questa Corte, di regola (cioè salvo situazioni particolari, come quella esaminata da Cass. SU Cass. SU 22 maggio 2012, n. 8077) l’interpretazione della domanda e l’individuazione della sua ampiezza e del suo contenuto integrano un tipico accertamento di fatto riservato al Giudice del merito, sicchè al riguardo alla Corte di cassazione è devoluto soltanto il compito di effettuare il controllo della correttezza della motivazione che sorregge sul punto la decisione impugnata (Cass. 2 novembre 2005, n. 21208; Cass. 27 luglio 2010, n. 17547; Cass. 9 settembre 2008, n. 22893; Cass. 26 aprile 2001, n. 6066; Cass. 9 giugno 2003, n. 9202; Cass. 20 agosto 2003, n. 12255; Cass. 22 gennaio 2004, n. 1079; Cass. 14 marzo 2006, n. 5491;

 

Cass. 26 giugno 2007, n. 14751; Cass. 30 giugno 1986, n. 6367).

 

2.2.- Per analoghe ragioni è inammissibile anche il terzo motivo.

 

Anche in questo caso, infatti, RFI – pur facendo formalmente riferimento ad una omissione di motivazione e, quindi, invocando l’art. 360 c.p.c., n. 5 – in realtà prospetta un error in procedendo consistente nell’omesso esame della propria eccezione dell’aliunde percepitivi, vizio che avrebbe dovuto essere denunciato attraverso il richiamo dell’art. 112 c.p.c. e art. 360 c.p.c., n. 4.

 

Inoltre, anche il suindicato motivo non è conforme al principio di specificità dei motivi del ricorso per cassazione, non essendovi nel ricorso alcun riferimento agli atti da cui risulterebbe la avvenuta proposizione dell’eccezione in argomento.

 

2.3.- Il secondo motivo non è fondato.

 

Come risulta da consolidati e condivisi indirizzi di questa Corte:

 

1) il termine di trenta giorni dalla ricezione dell’invito del datore di lavoro – entro il quale il lavoratore, a norma della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, deve riprendere servizio, dopo avere ottenuto la reintegrazione nel posto di lavoro, se intende evitare la risoluzione del rapporto – è stabilito nell’interesse del lavoratore in quanto, tenendo conto delle difficoltà che egli potrebbe incontrare qualora gli fosse stata imposta l’immediata ripresa del servizio, gli concede uno spatium deliberandi sul comportamento da seguire (vedi, per tutte: Cass. 11 maggio 1982, n. 2952);

 

2) ne consegue che la risoluzione del rapporto di lavoro, prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 18 per l’ipotesi in cui il lavoratore illegittimamente licenziato non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dal ricevimento del corrispondente invito del datore di lavoro, presuppone l’accertamento – riservato al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità, se sostenuto da motivazione adeguata ed immune da vizi (ex plurimis: Cass. 11 luglio 1981, n. 4533)- della sufficiente specificità dell’invito predetto non essendo sufficiente la manifestazione di una generica disponibilità del datore di lavoro e dare esecuzione al provvedimento di reintegrazione (vedi, fra le tante: Cass. 24 marzo 1987, n. 2857;

 

Cass. 20 febbraio 1988, n. 1826; molte altre conformi, anche Cass. 29 luglio 1998, n. 7448);

 

3) in particolare è necessario, sia pur senza forme solenni, un invito concreto e specifico a rientrare in azienda (Cass. 20 ottobre 1987 n. 7733, 13 gennaio 1993 n. 314, 19 giugno 1993 n. 6837), nel luogo e nelle mansioni originarie (Cass. 29 maggio 1995 n. 5993) ovvero in altre, se ricorrano comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive (Cass. 29 luglio 1998, n. 7448).

 

2.3.- Dai suddetti principi si desume che la specificità del contenuto dell’invito datoriale si collega alla funzione del termine per la ripresa del servizio di cui all’art. 18 St. lav., rappresentata dal consentire al lavoratore di decidere con agio il comportamento da tenere, avendo ben presenti tutti gli elementi propri della posizione lavorativa offertagli, dato il suo diritto rientrare nel luogo e nelle mansioni originarie e di potere, eventualmente, essere adibito a mansioni diverse solo in caso di ricorrenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.

 

2.4.- Nella specie è pacifico che il lavoratore nell’incontro avuto il 6 dicembre 2004, in seguito all’invito datoriale, con il Direttore Compartimentale Infrastruttura di Ancona ha richiesto specificazioni sulla posizione lavorativa che avrebbe ricoperto e che, non avendo ottenuto risposte al riguardo, ha manifestato la intenzione di volere attendere la comunicazione scritta e di volerne verificare il contenuto con il proprio legale.

 

E’ altrettanto certo che, prima della scadenza del termine, il legale del P. ha inviato una lettera a RFI, formalizzando la suddetta richiesta di chiarimenti, rimasta inevasa.

 

Ne consegue che, come correttamente ha ritenuto la Corte territoriale, RFI ha avuto un comportamento non conforme all’art. 18 St. lav. in quanto non ha posto il P. in condizione di effettuare la propria scelta con cognizione di causa e, inoltre, ha del tutto ignorato la lettera del legale del lavoratore, che invece era da considerare come un elemento del tutto idoneo ad escludere qualsiasi comportamento inerte dell’interessato.

 

A tale ultimo riguardo deve essere ricordato che questa Corte, con sentenza 13 gennaio 1993, n. 314, ha affermato che poichè l’art. 18 St. lav. non prevede alcuna particolare forma per la formulazione dell’invito datoriale a riprendere servizio, ai fini del decorso del termine ivi stabilito è da ritenere efficace anche un invito alla ripresa del lavoro rivolto all’interessato non personalmente dal datore di lavoro, ma per il tramite di un avvocato di questi, ancorchè privo di mandato speciale.

 

Da questo principio si desume – mutatis mutandis – che la richiesta dei dovuti (perchè finalizzati a consentire al lavoratore il consapevole esercizio dei propri diritti) chiarimenti in ordine alla posizione lavorativa offerta in seguito ad un invito datoriale privo di specificità (quale è quello in oggetto) è da considerare efficace – al fine di escludere l’inerzia del lavoratore – anche se è effettuata dal legale del lavoratore stesso.

 

3 – Conclusioni.

 

3.- In sintesi, il ricorso deve essere respinto. Le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in Euro 100,00 (cento/00) per esborsi, Euro 3000,00 (tremila/00) per compensi professionali, oltre accessori come per legge.

 

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione lavoro, il 25 settembre 2013.

 

Depositato in Cancelleria il 27 novembre 2013

 

    Tramite il modulo sottostante è possibile contattare lo studio legale di riferimento al fine di avere un consulto sulla propria problematica.
    La compilazione e l'invio dello stesso non comporta alcun impegno o onere da parte del richiedente.
    Laddove vi siano i presupposti, l'utente potrà decidere liberamente se affidare o meno la propria posizione allo studio legale di competenza.
    Cordialità.
    Nome :
    Cognome :
    Città :
    Provincia :
    Telefono :
    E-mail :* il riscontro verrà fornito tramite mail

    Oggetto :

    Vi contatto per esporre quanto segue:

    * tutti i campi sono obbligatori

    Accetto le condizioni per l'utilizzo del servizio ed esprimo il mio consenso al trattamento dei miei dati personali in conformità alle finalità di cui all' Informativa sulla Privacy.

    feedback
    I Feedback dei nostri clienti