In caso di operazioni annotate nei conti la prova contraria è a carico di controparte in quanto le predette costituiscono presunzione legale relativa
Cass. civ. Sez. V, Sent., 17-07-2014, n. 16325
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –
Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –
Dott. MELONI Marina – Consigliere –
Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –
Dott. CONTI Roberto Giovanni – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 17769/2007 proposto da:
D.C.C., D.L.L., nella qualità di titolari dell’omonimo studio dentistico ass. elettivamente domiciliati in ROMA VIA BORGHESANO LUCCHESE 29, presso lo studio dell’avvocato PETRUCCIANI GIUSEPPE, rappresentati e difesi dagli avvocati CIMA ANGELO WALTER, COLUCCI PIETRO con studio in CAMPOBASSO TRAVERSA VIA ZURLO 8, (avviso postale) giusta delega a margine;
– ricorrenti –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 103/2006 della COMM.TRIB.REG. di CAMPOBASSO, depositata il 19/04/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 02/12/2013 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;
udito per il controricorrente l’Avvocato GUIDA che ha chiesto il rigetto;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DEL CORE Sergio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Con sentenza 19.4.2007 la Commissione tributaria della regione Molise ha accolto l’appello dell’Ufficio di Campobasso della Agenzia e rigettato l’appello incidentale proposto da D.L.L. e D. C.C. – titolari dell’omonimo studio dentistico associato – e dichiarato legittimi gli atti con i quali era stata irrogata la sanzione pecuniaria per omesse fatturazioni (illeciti accertati negli anni 1993-1995) in esito ad indagini bancarie da cui era emerso che erano stati eseguiti, sul conto corrente intestato ai contribuenti, prelievi di somme delle quali non era stata fornita idonea giustificazione.
I Giudici territoriali ritenevano correttamente fondato all’accertamento dell’illecito tributario in base alle presunzioni legali previste dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, n. 2), e ritenevano altresì corretta la determinazione nella misura minima delle sanzioni applicata ai sensi del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 8.
Avverso la sentenza non notificata hanno proposto ricorso per cassazione i contribuenti deducendo quattro motivi corredati di quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c., ai quali ha resistito con controricorso la Agenzia delle Entrate.
Le parti ricorrenti hanno depositato memoria illustrativa.
Il primo motivo con il quale i ricorrenti deducono violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54, 55 e 56, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè “omessa, carente e/o insufficiente motivazione dell’avviso di irrogazione sanzioni, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5″, ed ancora “omessa, carente e/o insufficiente motivazione delle ragioni di fatto e diritto” e richiede alla Corte di verificare se l’Ufficio finanziario può recepire le risultanze del PVC senza effettuare alcun vaglio critico (quesito di diritto), è inammissibile in quanto:
1 – difetta di specificità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, non essendo stato neppure trascritto il contenuto dell’avviso di accertamento, e non essendo stata individuata la statuizione della sentenza impugnata nè svolta alcuna argomentazione giuridica a sostegno della asserita violazione delle norme delD.P.R. n. 633 del 1972, indicate in rubrica, esaurendosi la esposizione del motivo esclusivamente nella contestazione della asserita illegittimità del provvedimento irrogativo (e non anche dell’accertamento compiuto dai Giudici di merito) ritenuto direttamente inficiato da un vizio di legittimità proprio delle sentenze.
2 – il quesito di diritto, in quanto rivolto esclusivamente a censurare l’attività amministrativa, anzichè le specifiche statuizioni della sentenza deve ritenersi inconferente.
3 – il vizio di illegittimità del provvedimento irrogativo della sanzione (ove inteso come vizio di nullità per carenza di motivazione, sotto il duplice profilo di asserita illegittimità della motivazione “per relationem” al PVC, e di “acritico recepimento” delle risultanze del PVC) introduce una questione nuova, e pertanto inammissibile in sede di legittimità, non risultando dal ricorso nè dagli atti di causa che avesse costituito specifico motivo del ricorso introduttivo avanti la CTP (come è dato rilevare dall’elenco riassuntivo delle contestazioni formulate dai ricorrenti in primo grado – ricorso pag. 2 – tra cui tali vizi del provvedimento irrogativo non risultano dedotti).
Peraltro trattasi di motivo palesemente infondato, sotto entrambi profili, alla stregua della consolidata giurisprudenza della Corte (pacifica è la giurisprudenza di questa Corte in ordine alla piena legittimità della forma di motivazione “per relationem”: ex pluribus Corte Cass. 5^ sez. 18.4.2003 n. 6232; id. 5^ sez. 29.1.2008 n. 1906;
id. 5^ sez. 5.2.2009 n. 2749; id. 5^ sez. 9.2.2010 n. 2806; id. 5^ sez. 10.2.2010 n. 2907; id. 5^ sez. 9.4.2010 n. 8504; id. SU 14.5.2010 n. 11722; id. 5^ sez. 11.4.2011 n. 8183. Del pari consolidata è la giurisprudenza in punto di motivazione del provvedimento tributario conforme alle risultanze del verbale di constatazione redatto dai verificatori o dalla Guardia di Finanza:
Corte cass. 5^ sez. 26.6.2003 n. 10205; id. 5^ sez. 28.11.2005 n. 25146; id. 5^ sez. 11.4.2011 n. 8183 secondo cui “L’avviso di rettifica da parte della dichiarazione IVA, che abbia operato il semplice richiamo agli elementi risultanti dai verbali della polizia tributaria, non può ritenersi privo della necessaria autonoma valutazione di tali elementi da parte dell’Ufficio, dovendosi piuttosto ritenere implicitamente condivisa la valutazione di rilevanza espressa nei verbali richiamati”.; id. Sez. 5, Sentenza n. 21119 del 13/10/2011 Vedi: Corte cass. 5^ sez. 23.1.2006 n. 1236; id.
5^ sez. 12.3.2008 n. 6591).
Anche il secondo motivo (violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) è inammissibile.
Premesso che la controversia verte su atti irrogativi di sanzioni in materia IVA, sicchè appare poco comprensibile la indicazione tra le norme di diritto asseritamente violate anche di disposizioni concernenti l’accertamento delle imposte sui redditi, dalla non chiara esposizione sembra di comprendere che i ricorrenti intendano denunciare che gli estratti del conto corrente bancario, utilizzati ai fini dell’accertamento dell’illecito, sarebbero stati acquisiti presso l’azienda di credito illegittimamente in quanto non sarebbe stata prodotta in giudizio la autorizzazione del Comandante di Zona della Guardia di Finanza prevista dal D.P.R. n. 633 del 1972,art. 51, comma 2, n. 7), testo vigente “ratione temporis”. Il motivo da un lato si palesa nuovo (non risultando aver costituito oggetto del “thema controversum” dibattuto nei precedenti gradi di merito), dall’altro difetta di specificità atteso che in materia tributaria, non qualsiasi irritualità nell’acquisizione di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento comporta, di per sè, l’inutilizzabilità degli stessi, in mancanza di una specifica previsione in tal senso, esclusi i casi in cui viene in discussione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale, come l’inviolabilità della libertà personale o del domicilio (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 27149 del 16/12/2011) e nella specie alcuna specifica violazione di tali diritti è stata allegata dai ricorrenti.
Con il terzo motivo viene denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 21, e art. 41, comma 5, nn. 1 e 2, in relazione al D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54, 55 e 56, (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), nonchè il vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).
Il motivo è infondato. La tesi sostenuta dai ricorrenti secondo cui in mancanza di previa notifica di atto impositivo l’Amministrazione non potrebbe accertare l’illecito tributario, è chiaramente smentita dalla autonomia dei rispettivi procedimenti amministrativi e dei provvedimenti adottati all’esito di ciascun procedimento (atto di accertamento o rettifica; atto di irrogazione della sanzione pecuniaria, nella specie, preceduto dall’atto presupposto di contestazione dell’illecito). Quanto alla modalità di constatazione della violazione tributaria, i poteri dell’Ufficio finanziario e della Guardia di Finanza, di indagine, ispezione, verifica, acquisizione di informazioni e documenti, sono disciplinati dalla normativa relativa allo specifico tributo, nella specie rinvenendosi il fondamento normativo dell’acquisizione probatoria degli estratti di conto corrente bancario, nella disposizione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, n. 7), – testo vigente ratione temporis -, alla quale occorre riferirsi anche per le conseguenze sul piano probatorio della rilevazione di prelevamenti dal conto, che non trovano riscontro nelle scritture contabili, ed in ordine ai quali il titolare non sia in grado di fornire idonea giustificazione, quanto all’impiego od alla indicazione del beneficiario delle somme.
Del tutto priva di fondamento in proposito è la tesi dei ricorrenti secondo cui la norma in questione non prevedeva presunzioni legali di maggiori ricavi, smentita dal chiaro tenore della prescrizione per cui “i singoli dati ed elementi risultanti dai conti sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 54 e 55 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili; sia le operazioni imponibili sia gli acquisti si considerano effettuati all’aliquota in prevalenza rispettivamente applicata o che avrebbe dovuto essere applicata”: trattasi di presunzione legale che imputa automaticamente – in applicazione del criterio logico fondato sull'”id quod plerumque accidit” – i prelevamenti dal conto, non altrimenti giustificati, a maggiori ricavi imponibili, onerando la parte contribuente dell’onere della prova contraria (cfr. Corte Cass. Sez. 5, Sentenza n. 21132 del 13/10/2011; id. Sez. 5, Sentenza n. 1418 del 22/01/2013).
Infondata è altresì la tesi difensiva secondo cui il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, avrebbe un ambito di applicazione più circoscritto del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, nel senso che soltanto la seconda disposizione di legge consentirebbe di imputare – mediante presunzione legale – i prelevamenti dei conti bancali a spese per l’acquisto di beni e servizi diretti ad essere impiegati nella produzione di ricavi (così da inferire l’accertamento di maggiori imponibili pari almeno all’importo di detti prelievi).
Premesso che la stessa parte ricorrente rileva la identità della “ratio legis” che presiede ad entrambe le disposizioni legislative, elemento che di per sè indurrebbe a trattare in modo uniforme la disciplina dell’accertamento e della prova prevista in materia di II.DD. e di IVA, osserva il Collegio che la sintetica formula lessicale utilizzata dal Legislatore nel D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51 comma 2, n. 2), (“i singoli dati ed elementi risultanti dai conti sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 54 e 55 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili “) stabilisce in modo chiaro che qualsiasi operazione – dunque avuto riguardo sia ai versamenti che ai prelevamenti di somme – rilevata sul conto bancario, e non giustificata dal contribuente quanto a provenienza o destinazione delle somme, è posta a base della rettifica o dell’accertamento, dove il “porre a base” altro non significa che attribuire efficacia probatoria legale a tali operazioni bancarie in quanto fatti dimostrativi del maggior volume di affari e dunque prova del presupposto d’imposta ovvero del fatto costitutivo della pretesa impositiva. Riferendosi ai “dati ed elementi risultanti dai conti” (non rileva ai fini della questione controversa la integrazione della norma disposta dalla L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 404, che ha esteso l’utilizzabilità anche dei dati ed elementi concernenti, oltre che i conti bancari, anche altri “rapporti” intrattenuti dal contribuente) la richiamata disposizione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, n. 2), non pone limiti – diversamente da quanto opinato dalla parte ricorrente – al tipo di operazioni rilevabili dalla movimentazione del conto bancario, come peraltro emerge in modo inequivoco dalla proposizione normativa immediatamente precedente che autorizza gli Uffici finanziari ad invitare i contribuenti a comparire “per fornire dati, notizie e chiarimenti rilevanti ai fini degli accertamenti nei loro confronti anche relativamente alle operazioni annotate nei conti, la cui copia sia stata acquisita a norma del n. 7) del presente comma, ovvero rilevate a norma dell’art. 52, u.c., o dell’art. 63, comma 1”, intendendo la norma, pertanto, riferirsi tanto ai versamenti, quanto ai prelievi ingiustificati di somme (a tali conclusioni era già pervenuta questa Corte affermando che la presunzione, stabilita dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, comma 2, n. 2, secondo la quale i singoli dati ed elementi risultanti dai conti bancari sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dal successivo art. 54, se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili, ha un contenuto complesso, consentendo di riferire i movimenti bancari all’attività svolta in regime IVA, eventualmente dalla persona fisica, e di qualificare gli accrediti come ricavi e gli addebiti come corrispettivi degli acquisti: Corte Cass. Sez. 5, Sentenza n. 3929 del 18/03/2002; id. Sez. 5, Sentenza n. 28324 del 21/12/2005).
Alcun limite, dunque, pone la disposizione in questione alla applicazione dello schema presuntivo ex artt. 2727 e 2729 c.c., che, dagli importi prelevati dal conto (dei quali il contribuente non è stato in grado di specificare il destinatario o di indicare l’impiego in operazioni non imponibili) trae la inferenza logica della conoscenza del fatto ignorato e cioè della esatta quantificazione dei maggiori ricavi prodotti, atteso che indipendentemente dalla previsione della “presunzione legale” che deve essere rinvenuta nella formulazione della norma (che ilD.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, n. 2), preveda una “presunzione legale relativa” è questione pacifica in giurisprudenza: Corte Cass. Sez. 5, Sentenza n. 2435 del 19/02/2001; id. Sez. 5, Sentenza n. 18421 del 16/09/2005;
id. 5^ sez. 13.10.2011 n. 21132; id. Sez. 6-5, Ordinanza n. 13035 del 24/07/2012), è appena il caso di osservare che le presunzioni legali “juris tantum”, non operano necessariamente in funzione derogatoria o surrogatoria dello schema di inferenza logica, nel senso che in mancanza della previsione legale, il fatto certo produrrebbe una diversa conoscenza della realtà o addirittura non consentirebbe di inferire il fatto ignorato, ma possono semplicemente limitarsi ad agevolare l’onere probatorio gravante sulla parte tenuta a dimostrare (anche in via presuntiva semplice) i fatti costitutivi della pretesa, ritenendo questi per accertati e determinando un’automatica inversione dell’onere della prova a carico della controparte tenuta a dimostrare la insussistenza, nel caso concreto, della conseguenza logica prevista ex lege, fornendo la prova della diversa realtà del fatto ignorato (con riferimento al caso di specie, la prova che le somme prelevate dal conto bancario sono state destinate ad impieghi differenti dall’acquisto di beni e servizi strumentali all’esercizio dell’impresa).
Tale agevolazione probatoria, posta a vantaggio dell’Amministrazione finanziaria, trova specifica attuazione nella imputazione a ricavo di qualsiasi addebito bancario, indipendentemente cioè dalla entità e frequenza delle somme prelevate, e dunque indipendentemente dalla esistenza di quegli elementi indiziari che altrimenti si renderebbero necessari per pervenire alla prova presuntiva dotata dei requisiti di “gravità” richiesto dall’art. 2729 c.c., per la “praesumptio hominis”, mentre in presenza degli elementi indiziari indicati, rilevabili dalle movimentazioni del conto bancario, la presunzione legale di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, n. 2), viene sostanzialmente a coincidere con la presunzione semplice che il Giudice è legittimato a trarre dal fatto noto (la qualità di imprenditore del soggetto, o anche la frequenza e la entità delle somme movimentate sul conto bancario, unitamente alla assenza di giustificazioni fornite dal contribuente in ordine al possesso di altri redditi o proventi ed alla destinazione dei prelievi ad operazioni non imponibili, consentono di pervenire, infatti, alla prova presuntiva che i prelevamenti siano stati destinati a costi di esercizio dell’attività economica per produrre ricavi lordi non inferiori agli importi prelevati).
Tale coincidenza, in presenza degli indizi indicati, tra la presunzione legale e quella semplice, è implicitamente evidenziata, con riferimento alla analoga disposizione in materia di II.DD., nel precedente di questa Corte Cass. Sez. 6-5, Ordinanza n. 13036 del 24/07/2012 in cui si afferma la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, comma 1, n. 2, nella parte in cui prevede che i prelevamenti effettuati nell’ambito dei rapporti bancari siano posti, come ricavi, a base delle rettifiche ed accertamenti dell’amministrazione finanziaria, se il contribuente non ne indichi il soggetto beneficiario e semprechè non risultino dalle scritture contabili, poichè, come osservato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 225 del 2005, detta norma non viola nè l’art. 53 Cost., risolvendosi, quanto alla destinazione dei prelievi non risultanti dalle scritture contabili, in una presunzione di ricavi suscettibile di prova contraria attraverso l’indicazione del beneficiario dei prelievi, non lesiva del principio di ragionevolezza, non essendo manifestamente arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati dei conti correnti bancari effettuati da un imprenditore siano stati destinati all’esercizio dell’attività d’impresa e siano quindi considerati, detratti i relativi costi, in termini di reddito imponibile.
Il motivo di ricorso deve in conseguenza ritenersi infondato alla stregua del principio di diritto secondo cui:
la disposizione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, n. 2), nel testo applicabile “ratione temporis”, prevedendo che “relativamente alle operazioni annotate nei conti” la cui copia sia stata acquisita dall’Ufficio accertatore a norma del numero 7) del presente comma, ovvero rilevate a norma dell’art. 52, u.c., o dell’art. 63, comma 1, “i singoli dati ed elementi risultanti dai conti sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 54 e 55, se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili”, istituisce una presunzione legale relativa, stabilendo dal fatto noto e certo dei versamenti e prelevamenti rilevati sul conto bancario, la inferenza logica della esistenza di maggiori ricavi imponibili corrispondenti agli importi versati (quali corrispettivi non dichiarati di beni e servizi ceduti sul mercato) ed agli importi prelevati (quali costi per l’acquisto di beni e servizi strumentali all’esercizio della attività economica ed alla produzione di ricavi), ponendo a carico del contribuente la prova contraria del diversa realtà del fatto ignorato (che deve essere fornita, quanto ai “prelevamenti” dal conto, mediante la dimostrazione dell’impiego delle somme per operazioni non imponibili).
Il quarto motivo, con il quale si deduce la violazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, comma 8, e art. 12, commi 1, 2 e 5, (recte: del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 8) è inammissibile in quanto la mancata applicazione dell’istituto della continuazione formale è questione nuova che non risulta aver costituito oggetto di esame nei precedenti gradi di giudizio, e non può pertanto essere sottoposta, per la prima volta, alla Corte attraverso lo scrutinio di legittimità.
In conclusione il ricorso deve essere rigettato e le parti ricorrenti condannate alla rifusione delle spese del presente giudizio liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte:
– rigetta il ricorso e condanna le parti ricorrenti, in solido, alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2.500,00 oltre le spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, il 2 dicembre 2013.
Depositato in Cancelleria il 17 luglio 2014