La commissione di massimo scoperto deve essere restituita dalla banca in quanto illegittima

Tag 21 Novembre 2013  |

[massima]

Sentenza del Tribunale di Piacenza che affronta un caso di anatocismo su conto corrente successivo alla delibera CIRC del 2000.

Come noto la predetta delibera legittima l’applicazione dell’anatocismo introducendo talune condizioni: 1) la reciprocità della periodicità di capitalizzazione sia reciproca 2) la pattuizione e specifica approvazione per iscritto.

La sentenza pur riconoscendo la legittimità della clausola anatocistica, sottolinea l’indeterminatezza della “commissione di massimo scoperto”, la quale risulta priva di criteri idonei per il calcolo. Pertanto, tale somma dovrà essere restituita dall’istituto di credito.

 

 

[fatto]

Tribunale Piacenza del 12 aprile 2011 n. 309

Premesso che la ITALFONDIARIO s.p.a., in qualità di procuratrice della Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza s.p.a., ha chiesto ed ottenuto decreto ingiuntivo, per il pagamento di complessivi euro 36.438,81, oltre interessi, quale saldo passivo di un conto corrente intestato alla C.P.A. DI T. A. & C. s.n.c., della quale si erano costituiti garanti i sig.ri T. A., T. M. e M. A. M.;

che tutti gli ingiunti hanno proposto opposizione, deducendo una serie di motivi, quali: la illegittima capitalizzazione periodica degli interessi (anatocismo); la nullità ed illegittimità dell’applicazione di commissioni di massimo scoperto, sulle quali, peraltro, sarebbe stata calcolata la capitalizzazione trimestrale; infine, il superamento dei tassi-soglia stabiliti dalla legge antiusura (L. 108/96) alla luce dell’illegittima applicazione dell’anatocismo e delle commissioni di massimo scoperto; hanno concluso, pertanto, chiedendo la revoca del decreto ingiuntivo, o, in subordine, la riduzione della somma dovuta;

che si è costituita in giudizio la convenuta-opposta, contestando tutto quanto dedotto e chiedendo il rigetto dell’opposizione e la conferma del decreto;

che la causa veniva istruita mediante CTU contabile e, all’esito, veniva rinviata all’odierna udienza, per la discussione orale ai sensi dell’art. 281sexies c.p.c..

 

 

[diritto]

L’opposizione è in parte fondata.

La contestazione fondata sull’illegittima applicazione degli interessi anatocistici, deve essere disattesa, trattandosi di un rapporto di conto corrente aperto in data 15.11.2002, e quindi soggetto all’applicazione della norma di cui all’art. 120 TUB (D.L.vo 1/09/1993, n. 385), come modificato dall’art. 25 D.L.vo 4.08.1999, n. 342, e della successiva ed attuativa Delibera CICR del 9.02.2000.

Come è noto, tale norma ha sancito la legittimità della capitalizzazione degli interessi nell’ambito dei rapporti bancari, alla sola condizione che la periodicità della capitalizzazione sia reciproca e che risulti da espressa pattuizione scritta (cfr., in particolare, art. 2 Delibera CICR citata), pattuizione che, inoltre, deve essere specificamente approvata per iscritto (art. 6 Delibera CICR citata); tali condizioni, nel caso di specie, risultano rispettate, poiché nel contratto di conto corrente stipulato tra le parti (doc. 3, 4bis di parte opposta), risulta stabilito, all’art. 7, comma 2°, che “i rapporti di dare e avere relativi al conto, sia esso debitore o creditore, vengono regolati con identica periodicità, pattuita ed indicata nel predetto modulo (ovvero la lettera integrativa allegata al contratto, ndr)” e, in quest’ultima lettera, è indicato, come criterio di capitalizzazione “dare e avere trimestrali”; la clausola di cui all’art. 7 delle condizioni generali di contratto è poi specificamente richiamata in calce al contratto stesso e sottoscritta dal correntista: pertanto, l’applicazione di interessi anatocistici trimestrali, anche passivi, è, nella fattispecie, legittima.

Pure infondata è la contestazione sull’asserita applicazione di tassi superiori ai limiti stabiliti dalla legge anti-usura, applicazione che è stata esclusa dal CTU, il quale – applicando un criterio di calcolo corretto e rispondente ai principi tecnici e legislativi in materia, in particolare, giustamente comprendendo nella determinazione del TEG tutti gli oneri a qualsiasi titolo pretesi dalla banca, ivi comprese le commissioni di massimo scoperto – ha evidenziato il rispetto, da parte dell’istituto di credito convenuto, dei tassi soglia di cui alla L. 108/96 (e successivi decreti ministeriali di attuazione).

è invece fondata l’opposizione, ove contesta l’invalidità della pattuizione relativa alle commissioni di massimo scoperto.

Invero, sul punto si registrano soluzioni difformi in giurisprudenza, a proposito della ritenuta invalidità dell’istituto della CMS per mancanza di causa; ciò su cui, però, la giurisprudenza è pacifica (e non potrebbe essere altrimenti, visto il chiaro disposto dell’art. 117 TUB), è nel ritenere che la clausola che prevede la commissione di massimo scoperto, perché sia valida, debba rivestire i requisiti della determinatezza o determinabilità dell’onere aggiuntivo che viene ad imporsi al cliente (Tribunale Novara 16 luglio 2010 n. 774, in JurisData; Tribunale Teramo 18 gennaio 2010 n. 84, in Giurisprudenza locale – Abruzzo 2010; Tribunale Busto Arsizio 9 dicembre 2009, in Foro It. 2010, 2, I, 672; Tribunale Monza 14 ottobre 2008 n. 2755, in JurisData; Tribunale Vibo Valentia 28 settembre 2005, in Corti calabresi (Le) 2007, 1, II, 216; Tribunale Torino 23 luglio 2003, in Giur. merito 2004, 283); più in particolare, è stato sancito dalla giurisprudenza, che la determinatezza o determinabilità della clausola si configura quando in essa siano previsti sia il tasso della commissione, sia i criteri di calcolo e la sua periodicità (Tribunale di Parma, 23 marzo 2010, in IlCaso.it, I, 2273; Trib. Busto Arsizio 9.12.2009 cit.; Tribunale di Biella, 23 luglio 2009, in IlCaso.it, I, 2367; Tribunale Cassino 10 giugno 2008 n. 402 in Guida al diritto 2008, 39, 78; Tribunale Genova sez. VI 18 ottobre 2006, in Foro Padano, 2007, 3-4, I, 493; Tribunale Monza 12 dicembre 2005, in Banca Borsa Tit. Cred. 2007, 2, II, 204).

La soluzione è assolutamente condivisibile perché costituisce piena applicazione della norma di cui all’art. 1346 c.c., secondo cui ogni obbligazione contrattuale deve essere determinata o, quanto meno, determinabile e, più nello specifico, dell’art. 117, comma 4° TUB, che impone la forma scritta ad substantiam per ogni prezzo, condizione od onere praticati nei contratti bancari.

In particolare, tale onere di specifica indicazione e determinazione è tanto più essenziale, quanto meno è definito e determinato l’istituto della commissione di massimo scoperto; posto, infatti, che non vi è alcuna definizione normativa e nemmeno scientifica o tecnico-bancaria della fattispecie, che si è affermata nella prassi creditizia e si è evoluta e modifica nel tempo, si rileva come anche la sua pratica applicazione da parte dello stesso sistema bancario sia difforme e non univoca. La c.m.s. è stata infatti diversamente definita o individuata ¬- limitandosi alle due accezioni principali e più diffuse – come il corrispettivo per la semplice messa a disposizione da parte della banca di una somma, a prescindere dal suo concreto utilizzo (ed in tal senso si parla, a volte, anche di commissione di affidamento), oppure come la remunerazione per il rischio cui la banca è sottoposta nel concedere al correntista affidato l’utilizzo di una determinata somma, a volta oltre il limite dello stesso affidamento (nozione, quest’ultima, che sembra essersi imposta più di recente); da tale diversità di natura e giustificazione, è derivata anche la sopra accennata diversità di metodologie applicative, dal momento che, in coerenza con il primo profilo della cms, questa viene calcolata sull’intero ammontare della somma affidata, mentre nella seconda ipotesi, il calcolo avviene soltanto sul massimo saldo dare registrato sul conto in un determinato periodo (sul periodo da prendere a riferimento si registrano, poi, le più svariate soluzioni, a volte prendendosi in considerazione il trimestre, ed a volte anche periodi ben più brevi, sino addirittura allo scoperto giornaliero); ancora, manca l’univocità in ordine alla periodicità di calcolo delle c.m.s. che in alcuni casi vengono computate dalla banca addirittura come un accessorio degli interessi, seguendo la medesima periodicità (pratica, quest’ultima, espressamente ritenuta illegittima dalla Cassazione, sez. 3, sentenza n. 11772 del 6/08/2002); tale varietà trova conferma nel recente intervento legislativo (ovviamente inapplicabile ratione temporis alla fattispecie in esame), di cui alla L. 28 gennaio 2009, n. 2 (di conversione, con modifiche del D.L. 29 novembre 2008, n. 185), che non ha saputo fornire una definizione della c.m.s., limitandosi a regolamentarne alcuni aspetti ed anzi prendendo atto della varietà applicativa dell’istituto (si veda, in particolare, l’art. 2bis, comma 1, secondo periodo: “sono altresì nulle le clausole comunque denominate, che prevedono una remunerazione accordata alla banca per la messa a disposizione di fondi a favore del cliente titolare di conto corrente indipendentemente dall’effettivo prelevamento della somma, ovvero che prevedono una remunerazione accordata alla banca indipendentemente dall’effettiva durata dell’utilizzazione dei fondi da parte del cliente”).

In sostanza, il termine commissione di massimo scoperto non è affatto riconducibile ad un’unica fattispecie giuridica, sicché l’onere di determinatezza della previsione contrattuale delle c.m.s. deve essere valutato con particolare rigore, dovendosi esigere, se non una sua definizione contrattuale, per lo meno la specifica indicazione di tutti gli elementi che concorrono a determinarla (percentuale, base di calcolo, criteri e periodicità di addebito), in assenza dei quali non può nemmeno ravvisarsi un vero e proprio accordo delle parti su tale pattuizione accessoria, non potendosi ritenere che il cliente abbia potuto prestare un consenso consapevole, rendendosi conto dell’effettivo contenuto giuridico della clausola e, soprattutto, del suo “peso” economico; in mancanza di ciò l’addebito delle commissioni di massimo scoperto si traduce in una imposizione unilaterale della banca che non trova legittimazione in una valida pattuizione consensuale.

Ne consegue che non può ritenersi sufficientemente determinata (a differenza, ad esempio, di quanto avviene per la pattuizione del tasso di interessi ultralegali), la mera indicazione, nel foglio allegato alle condizioni generali di contratto, di un tasso percentuale accompagnato dalla dizione “commissione di massimo scoperto”, senza ulteriori indicazioni sulla periodicità dell’applicazione, sui criteri di calcolo e sinanche sulla base di computo e senza nemmeno una specifica clausola nelle condizioni generali di contratto, che indichi e giustifichi la facoltà della banca di imporre tali commissioni.

Nella fattispecie in esame, si riscontra tale carenza di pattuizione e di determinazione dell’onere, appunto perché nulla è detto nelle condizioni generali di contratto, mentre soltanto nel foglio allegato, contenente la specificazione numerica delle condizioni economiche (per la maggior parte già regolate, però, dalle condizioni generali cui accedevano), appare la voce “commissioni di massimo scoperto”, seguita dall’indicazione numerica 0,750 (senza ulteriori indicazioni sul periodo temporale di riferimento) e dalla voce “per scopertura di conto non autorizzata”; è sin troppo evidente che, alla luce dei criteri e dei principi sopra delineati, tale indicazione sia assolutamente nulla per indeterminatezza dell’oggetto, non essendo possibile in nessun modo, in base a questi elementi, cogliere i tratti essenziali dell’onere imposto dalla banca.

In conclusione, il credito della banca opposta deve essere rideterminato nella misura calcolata dal CTU, applicando gli interessi al tasso convenzionale, con applicazione dell’anatocismo trimestrale, ma eliminando dal saldo le somme addebitate dalla banca a titolo di commissioni di massimo scoperto: la CTU del dr. S. A. (che è assolutamente corretta e, peraltro, non è stata contestata dalle parti quanto ad esattezza delle somme determinate e dei metodi di calcolo utilizzati) ha individuato detta somma in euro 12.054,87, alla data del 27.08.2007 (data di chiusura del conto); su tale somma spettano gli ulteriori interessi di mora (al tasso legale, così come richiesto dall’istituto ricorrente) dal 28.08.2007 al saldo.

La riduzione del credito ingiunto comporta, secondo un indirizzo ormai consolidato della giurisprudenza, la revoca del decreto ingiuntivo opposto, con la contestuale emissione ex art. 653, 2° comma, c.p.c. di una sentenza di condanna, della parte opponente, al pagamento della somma accertata come dovuta all’opposta (Cass. sez. III, n. 15026 del 15/07/2005; sez. II, n. 10229 del 15/07/2002; sez. I, n. 4103 del 21/02/2007 e n. 6514 del 19/03/2007).

è quasi superfluo precisare che la richiesta di condanna degli opponenti al risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c., svolta dalla banca opposta, è assolutamente infondata e priva dei presupposti, a fronte della riconosciuta fondatezza, sia pur parziale, dell’opposizione.

Le spese seguono la soccombenza e, pertanto, considerato che l’opposizione è stata accolta solo su uno dei motivi svolti e che ciò ha determinato una riduzione del credito superiore al 50% di quello ingiunto, si ravvisa un’ipotesi di soccombenza reciproca, che giustifica la compensazione integrale delle spese di lite; le spese di CTU restano a carico delle parti in solido, nella misura già liquidata con decreto del GI in data 3.04.2010.

P.Q.M.

il Tribunale di Piacenza, definitivamente pronunciando, disattesa ogni altra istanza, eccezione e difesa:

– accoglie, nei limiti di cui in motivazione, l’opposizione, dichiarando la nullità, per difetto di valida pattuizione scritta ex artt. 1346 c.c. e 117 D.L.vo 385/93 delle commissioni di massimo scoperto applicate dall’istituto bancario convenuto;

– per l’effetto, revoca il Decreto Ingiuntivo n. 1578/07 emesso dal Tribunale di Piacenza in data 27.10.2007 a favore di ITALFONDIARIO s.p.a.;

– condanna gli opponenti C.P.A. DI T. A. & C. s.n.c, in qualità di debitrice principale, M. A. M., T. A. E T. M., in qualità di fideiussori, in solido tra loro, al pagamento, in favore della ITALFONDIARIO s.p.a. della somma di euro 12.054,87, oltre interessi legali dal 28.08.2007 al saldo;

– rigetta la domanda di condanna degli opponenti al risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c.;

– compensa integralmente le spese di lite tra le parti;

– pone le spese di CTU, nella misura già liquidata con decreto del GI in data 3.04.2010, definitivamente a carico delle parti in solido.

Così deciso in Piacenza, in data 12 aprile 2011.

 

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