Corte Suprema di Cassazione – Ordinanza n. 3865 del 17/02/2020
[intestaz]
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –
Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – rel. Consigliere –
Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –
Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 25786/2015 proposto da:
Asahi Kasei Fibers Italia s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, C.Z.G., F.L.P., P.A., R.E., elettivamente domiciliati in Roma Via G. Pisanelli 2, presso lo studio dell’avvocato Maria Antonietta D’Intino e rappresentati e difesi dagli avvocati Matteo Bay e Giampietro Bozzola in forza di procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrenti –
contro
F.D.G. s.p.a., in liquidazione e amministrazione straordinaria, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via G. B. Vico 1, presso lo studio dell’avvocato Roberto Ranucci e rappresentata e difesa dall’avvocato Guido Bevilacqua in forza di procura speciale allegata al controricorso;
– controricorrente incidentale –
contro
As. s.r.l., C.Z.G., F.L.P., P.A., R.E., elettivamente domiciliata in Roma Via G. Pisanelli 2 presso lo studio dell’avvocato Maria Antonietta D’Intino e rappresentata e difesa dagli avvocati Matteo Bay e Giampietro Bozzola in forza di procura speciale in calce al ricorso;
– controricorrenti al ricorso incidentale –
avverso la sentenza n. 1268/2015 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 30/06/2015;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 17/10/2019 dal Consigliere Dott. UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE SCOTTI.
[fatto]
1. Con atto di citazione del 21/7/2008 la F.D.G. in liquidazione e amministrazione straordinaria (di seguito, semplicemente, F.D.G.) ha convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Novara la As.s.r.l. (di seguito, semplicemente: As.) e i signori P.A., C.Z.G., F.P.L. e R.E., chiedendo l’accertamento da parte della società convenuta di una condotta di concorrenza sleale ex art. 2598 c.c., n. 3, la condanna dei convenuti in solido al risarcimento dei danni, la cessazione immediata delle condotte illecite e l’inibitoria nei confronti di As. di qualsiasi ulteriore acquisizione di dipendenti e collaboratori per la durata di due anni e il divieto ai signori F., R., C.Z. e P. di prestare la loro attività per As. per un anno, con pubblicazione della sentenza.
L’attrice ha sostenuto di aver prodotto da decenni il filo di (OMISSIS) con il marchio (OMISSIS); che la multinazionale giapponese As. Corporation negli anni ‘30 aveva acquistato il brevetto per produrre la fibra artificiale in Giappone e aveva assunto la qualità di socio occulto o azionista fiduciante di F.D.G.; che l’As. Corporation aveva quindi messo in atto, tramite la società convenuta, da essa controllata, una tattica diretta a distruggere la società attrice; che in questo contesto erano stati stornati i signori F., R., C.Z. e P., dipendenti preposti all’area commerciale ed era stata realizzata una campagna di sviamento di clientela mediante attività pubblicitarie e smembramento dell’organizzazione aziendale; che la convenuta aveva utilizzato la scritta Bem. sul suo sito; che si era determinato un calo del fatturato contestuale all’aumento del fatturato della società giapponese.
I convenuti si sono costituiti in giudizio, chiedendo il rigetto della domanda attorea e precisando, fra l’altro, che i quattro lavoratori erano ex dipendenti di F.D.G., taluni pensionati e uno alle dipendenze di altra società, senza che vi fosse stato passaggio diretto fra le due aziende; hanno altresì assunto che il marchio (OMISSIS) era utilizzato sul sito della multinazionale giapponese, legittimata al suo uso, in lingua inglese.
Con sentenza del 23/2/2010 il Tribunale di Novara ha rigettato la domanda di F.D.G., a spese compensate.
2. Avverso la predetta sentenza ha proposto appello F.D.G., a cui hanno resistito gli appellati As., F., R., C.Z. e P..
La Corte di appello di Torino, dopo aver esperito istruttoria testimoniale, con sentenza n. 1268 del 30/6/2015, ha accolto parzialmente il gravame, accertando l’illiceità della condotta tenuta da As. con il concorso colposo dei signori F., R., C.Z. e P., condannando As. a porre fine a pratiche di sviamento della clientela attuate anche mediante atti confusori riguardanti i prodotti commercializzati e l’uso nel mercato italiano ed Europeo del marchio Bem. relativo alla fibra di cupro, a spese compensate per il doppio grado, confermando nel resto l’impugnata sentenza.
3. Avverso la predetta sentenza del 30/6/2015, notificata il 31/7/2015, con atto notificato il 27/10/2015 hanno proposto ricorso per cassazione As./ ed signori F., R., C.Z. e P., svolgendo dodici motivi.
Con atto notificato il 19/11/2015 ha proposto controricorso e ricorso incidentale F.D.G., chiedendo il rigetto dell’avversaria impugnazione e instando, a sua volta, con il supporto di un motivo, per la cassazione della sentenza di secondo grado.
Con controricorso notificato il 7/12/2015 As. ha resistito al ricorso incidentale avversario.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
[diritto]
1. Con il primo motivo di ricorso principale, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 4, i ricorrenti denunciano nullità della sentenza per omessa pronuncia sull’eccezione di inammissibilità dell’appello di F.D.G., sollevata con riferimento alla pregressa formulazione dell’art. 342 c.p.c..
La doglianza non può essere condivisa: il vizio di omessa pronuncia su una domanda o eccezione di merito, che integra una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato ex art. 112 c.p.c., ricorre quando vi sia omissione di qualsiasi decisione su di un capo di domanda, intendendosi per capo di domanda ogni richiesta delle parti diretta ad ottenere l’attuazione in concreto di una volontà di legge che garantisca un bene all’attore o al convenuto e, in genere, ogni istanza che abbia un contenuto concreto formulato in conclusione specifica, sulla quale deve essere emessa pronuncia di accoglimento o di rigetto (Sez. 6, 27/11/2017, n. 28308).
Il vizio di omessa pronunzia è configurabile solo nel caso di mancato esame di questioni di merito, e non anche di eccezioni pregiudiziali di rito (Sez. 3, 11/10/2018, n. 25154; Sez. 6, 14/03/2018, n. 6174) e non ricorre comunque quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto della domanda o eccezione formulata dalla parte (Sez. , 13/08/2018, n. 20718; Sez. 5, n. 29191 del 06/12/2017, Rv. 646290 – 01; Sez. 1, n. 17956 del 11/09/2015, Rv. 636771 – 01; Sez. 1, n. 5351 del 08/03/2007, Rv. 595288 – 01).
E’ evidente che il rigetto dell’eccezione di inammissibilità dell’appello è implicito nell’esame nel merito del gravame e, a maggior ragione, nel suo accoglimento.
2. Con il secondo motivo di ricorso principale, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 2, i ricorrenti denunciano violazione del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, in L. 24 marzo 2012, n. 27 e del D.Lgs. 27 giugno 2003, n. 168, artt. 3 e 4.
2.1. Secondo i ricorrenti, la prima sezione civile della Corte torinese, non essendo la sezione specializzata in materia di impresa, avrebbe dovuto dichiararsi incompetente a giudicare una fattispecie in materia industriale, attinente all’uso asseritamente illecito da parte di As. del marchio Bem..
2.2. La censura non può essere condivisa, dovendosi prestare continuità all’orientamento recentemente espresso dalle Sezioni Unite di questa Corte, che, avallando le conclusioni dell’indirizzo giurisprudenziale nettamente prevalente (espresso dalle pronunce n. 24656 del 22/11/2011, n. 21668 del 20/9/2013, n. 11448 del 23/5/2014, n. 12326 del 15/6/2015, n. 21774 del 27/10/2016, n. 5656 del 7/3/2017, n. 7227 del 22/3/2017, n. 13138 del 24/5/2017, n. 25059 del 23/10/2017), hanno affermato che il rapporto tra sezione ordinaria e sezione specializzata in materia di impresa, nello specifico caso in cui entrambe le sezioni facciano parte del medesimo ufficio giudiziario, non attiene alla competenza, ma rientra nella mera ripartizione degli affari interni all’ufficio giudiziario; di qui l’inammissibilità del regolamento di competenza, richiesto d’ufficio ai sensi dell’art. 45 c.p.c., rientrando, invece, nell’ambito della competenza in senso proprio solo la relazione tra la sezione specializzata in materia di impresa e l’ufficio giudiziario diverso da quello ove la prima sia istituita (Sez. U, n. 19882 del 23/07/2019, Rv. 654837 – 01).
3. Il terzo, quarto, quinto e sesto motivo, dedicati all’accertata commissione di atti contrari alla correttezza professionale mediante storno di dipendenti e collaboratori, appaiono strettamente interconnessi e possono essere esaminati congiuntamente.
3.1. Il Collegio deve tuttavia porsi preliminarmente l’interrogativo dell’ammissibilità dei motivi di ricorso proposti sul predetto capo di decisione perchè la Corte di appello si è limitata ad accertare “l’illiceità della condotta tenuta da As. s.r.l., con il concorso colposo di R.E., C.Z.G., F.P.L. e P.A., consistita nello storno dei predetti ex collaboratori di Bem. s.p.a, ora F.D.G. in Liquidazione e Amministrazione Straordinaria”, confermando il rigetto di tutte le altre domande consequenziali proposte da F.D.G..
3.2. E’ stata così rigettata la richiesta di inibitoria (sentenza impugnata, pag. 16 e 17) in considerazione del tempo ormai trascorso, con statuizione esente dal ricorso incidentale; è stata rigettata la richiesta di pubblicazione della sentenza, per la stessa ragione e per le cessioni avvenute nelle more (pag. 19), con statuizione anch’essa esente da ricorso incidentale; è stata rigettata, infine, la richiesta di risarcimento del danno (pag. 18) con statuizione oggetto del ricorso incidentale di F.D.G..
3.3. In difetto di tale impugnazione o di suo esito positivo, secondo il Collegio, non sussisterebbe in capo ad As. un apprezzabile interesse, concreto e attuale, ad impugnare una pronuncia di mero accertamento, confinata ad un livello meramente astratto e priva di qualunque concreta conseguenza giuridica sfavorevole.
Ovviamente occorrerebbe ragionare diversamente nel caso in cui l’impugnazione incidentale del rigetto della pretesa risarcitoria si rivelasse fondata, perchè ciò innescherebbe l’interesse di As. a ribaltare una pronuncia suscettibile di produrre conseguenze risarcitorie per la sua sfera patrimoniale.
Per queste ragioni il Collegio ritiene di procedere in via preliminare all’esame del motivo di ricorso incidentale di F.D.G..
4. Con il motivo di ricorso incidentale, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, la F.D.G. denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 2600 e 1226 c.c., nonchè vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, mancato esame di fatti storici decisivi, motivazione apparente, contrasto fra affermazioni inconciliabili e incoerenza della motivazione.
Il motivo si riferisce sia alla fattispecie dello storno di collaboratori che alla concorrenza confusoria.
4.1. La ricorrente incidentale pone in evidenza che la Corte di appello ha dapprima affermato che era indubbio che la Bem. avesse ricevuto conseguenze patrimoniali negative consequenzialmente connesse in via diretta alla sottrazione del personale apicale maggiormente qualificato, ribadendo che si trattava di una presunzione assistita da elementi univoci.
Quindi la Corte torinese, dopo aver riconosciuto l’esistenza di atti di sviamento della clientela e aver affermato che il passivo di F.D.G. accertato nel corso della procedura di amministrazione straordinaria era riconducibile “al più solo in parte” agli atti di concorrenza sleale da essa subiti, aveva contraddittoriamente negato il risarcimento del danno, pur nell’impossibilità per l’attrice di dimostrare quale parte della propria perdita fosse imputabile agli atti di concorrenza sleale e pur potendo e dovendo ricorrere alla valutazione equitativa di cui all’art. 1226 c.c..
4.2. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’accertamento di concreti fatti materiali di concorrenza sleale comporta una presunzione di colpa, ai sensi dell’art. 2600 c.c., comma 3, rispetto alla quale la dimostrazione dell’assenza dell’elemento soggettivo, ai fini dell’esclusione della responsabilità, incombe all’autore del fatto materialmente antigiuridico.
Il relativo danno cagionato dal compimento di atti di concorrenza sleale non è però qualificabile in re ipsa ma, costituendo una conseguenza diversa e ulteriore rispetto alla distorsione delle regole della concorrenza richiede, in ogni caso, di essere autonomamente provato secondo i principi generali che regolano il risarcimento da fatto illecito, con la conseguenza che solo la dimostrazione dell’esistenza del danno consente il ricorso al criterio equitativo ai fini della liquidazione (Sez. 1, 23/12/2015, n. 25921; Sez. 1, 16/01/2013, n. 1000; Sez. 1, 18/12/2003, n. 19430).
4.3. La prova dell’esistenza del danno e del suo nesso causale con la condotta illecita incombente su F.D.G. non può essere ritratta solo sulla base del calo del suo fatturato e dell’incremento di quello di As., peraltro affermati l’uno e l’altro del tutto genericamente, poichè tali circostanze possono avere le più svariate origini e spiegazioni, non ultima, decisivamente, l’accertato grave stato di dissesto in cui si era venuta a trovare F.D.G. dipeso da una inadeguata gestione della precedente compagine societaria.
4.4. A pagina 18 della sentenza impugnata la Corte torinese ha affermato, con riferimento al ravvisato storno, che era indubbio che la Bem. (F.D.G.) avesse subito delle conseguenze patrimoniali negative consequenzialmente connesse in via diretta alla sottrazione del personale apicale maggiormente qualificato.
Successivamente la Corte di appello ha ipotizzato che il passivo accertato in sede di procedura di amministrazione straordinaria, sia pure in parte, fosse riconducibile causalmente ai fatti di causa e ha financo presunto effetti negativi, salvo chiarire che non era possibile attribuire tout court il “buco” accertato dalla procedura agli effetti della condotta di As. e quindi rigettare la domanda per la mancata dimostrazione documentale dell’entità della clientela sviata.
4.5. Avendo quindi la Corte accertato il nesso causale fra una perdita patrimoniale e le condotte illecite, almeno per quelle relative allo storno, al cui riguardo si è espressa in termini di certezza e univocità, la Corte di appello avrebbe dovuto dar ingresso alla valutazione equitativa di un danno, obiettivamente esistente, ma non suscettibile di prova nel suo preciso ammontare.
La liquidazione equitativa dei danni è dall’art. 1226 c.c., rimessa al prudente criterio valutativo del giudice di merito non soltanto quando la determinazione del relativo ammontare sia impossibile ma anche quando la stessa, in relazione alle peculiarità del caso concreto, si presenti particolarmente difficoltosa (Sez. 3, 04/04/2019, n. 9339).
Indubbiamente, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la facoltà per il giudice di liquidare in via equitativa il danno esige due presupposti: in primo luogo, che sia concretamente accertata l’ontologica esistenza d’un danno risarcibile, prova il cui onere ricade sul danneggiato, e che non può essere assolto semplicemente dimostrando che l’illecito ha soppresso una cosa determinata, se non si dimostri altresì che questa fosse suscettibile di sfruttamento economico; in secondo luogo, il ricorso alla liquidazione equitativa esige che il giudice di merito abbia previamente accertato che l’impossibilità (o l’estrema difficoltà) d’una stima esatta del danno dipenda da fattori oggettivi, e non già dalla negligenza della parte danneggiata nell’allegare e dimostrare gli elementi dai quali desumere l’entità del danno (Sez. 6-3, 22/02/2017, n. 4534).
La motivazione addotta dalla Corte torinese in chiusura di pag. 18 riguarda esclusivamente il danno da “sviamento di clientela”, come dimostra l’aggancio alla mancata prova dell’entità della clientela sviata e alla mancata dimostrazione del collegato fatturato e non già al pregiudizio (invece ritenuto esistente) conseguente all’accertato comportamento di storno di dipendenti e collaboratori, indubbiamente di assai disagevole determinazione e al cui riguardo la Corte subalpina non ha mosso alcun rimprovero di inerzia probatoria a F.D.G..
4.6. Il ricorso incidentale merita quindi accoglimento nei sensi di cui all’esposta motivazione.
5. La predetta conclusione legittima l’interesse di As. alla proposizione dei predetti motivi di ricorso n. 3, 4, 5 e 6.
5.1. Con il terzo motivo di ricorso principale, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 5, i ricorrenti denunciano omesso esame di fatti storici decisivi, motivazione apparente, contrasto fra affermazioni inconciliabili e mancanza assoluta di motivazione materiale e grafica.
5.1.1. La ricorrente sostiene, in primo luogo, che la Corte territoriale aveva omesso completamente di considerare che non si era verificato un passaggio diretto dei quattro lavoratori da una società all’altra e che almeno tre dei quattro ex dipendenti/collaboratori di F.D.G. avevano iniziato a collaborare con As. quando il loro rapporto con F.D.G. era da tempo interrotto, due di essi essendo in pensione e gli altri due avendo collaborato con altre aziende.
5.1.2. In secondo luogo, era stato completamente trascurato il fatto che tutti i testi avevano dichiarato di ignorare la sussistenza di rapporti occulti o di natura concorrenziale fra As. Italia e i quattro collaboratori.
5.1.3. In terzo luogo, era stato ignorato il fatto che il grave stato di dissesto in cui si era venuta a trovare F.D.G. era dipeso da una inadeguata gestione della precedente compagine societaria, in via del tutto indipendente dalla trasmigrazione contestata.
5.1.4. Era infine stato omesso di considerare che la teste M.M. aveva dichiarato di non ricordare alcuno stand di As. alla fiera del 2008 e al depliant brochure (doc. 11), che pure le era stato mostrato.
5.1.5. Quanto alla mera apparenza della motivazione, nessuna delle affermazioni della sentenza impugnata trovava un qualche riscontro nella istruttoria espletata.
Erano poi del tutto contraddittorie le affermazioni della Corte circa le mansioni rivestite dagli ex collaboratori e il carattere apicale della loro funzione; l’esclusione di rapporti fra i quattro ed As. e l’attività distrattiva ai danni di F.D.G.; l’ininfluenza delle dichiarazioni espresse dal B. e la loro obiettività; le cattive condizioni economiche di Bem. e le conseguenze negative della distrazione del personale.
5.2. Con il quarto motivo di ricorso principale, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, i ricorrenti denunciano violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art. 2598 c.c., n. 3 e art. 2697 c.c..
La Corte di appello aveva ritenuto sussistente lo storno dei dipendenti sulla base di circostanze del tutto irrilevanti, nonostante la totale assenza degli elementi rivelatori, tipizzati dalla giurisprudenza, dell’intento nell’autore di danneggiare l’organizzazione produttiva del concorrente.
5.3. Con il quinto motivo di ricorso principale, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, i ricorrenti denunciano violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art. 2598 c.c., laddove la Corte di appello aveva affermato che le condotte illecite di natura concorrenziale dovevano essere valutate nel contesto complessivo emergente dalle risultanze di causa, con valutazione unitaria e svincolata dall’esame parcellizzato di singoli episodi ed inoltre che doveva essere valutata la ricorrenza o meno di elementi di natura presuntiva convergenti nella dimostrazione del fatto dedotto in giudizio.
5.4. Con il sesto motivo di ricorso principale, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, i ricorrenti denunciano violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art. 2729 c.c., perchè, in difetto di prova diretta dei fatti e in assenza di elementi idonei, sulla base di elementi nè noti, nè gravi, nè precisi e tantomeno concordanti, aveva presunto lo svolgimento di attività distrattiva.
5.5. La Corte di appello torinese ha ritenuto sussistente da parte della convenuta As. la commissione di atti di concorrenza sleale ex art. 2598 c.c., n. 3, nella forma del cosiddetto “storno di dipendenti e collaboratori”.
L’orientamento giurisprudenziale di questa Corte, per vero assai risalente, in tema di atti di concorrenza sleale contrari ai principi della correttezza professionale nella figura tipica dello storno di dipendenti reputa necessaria all’integrazione della fattispecie la consapevolezza nel soggetto agente dell’idoneità dell’atto a danneggiare l’altrui impresa e il requisito soggettivo dell’animus nocendi, tuttavia considerato sussistente in linea puramente oggettiva ogni volta che lo storno sia stato posto in essere con modalità tali da non potersi giustificare, in rapporto ai principi di correttezza professionale, se non supponendo nell’autore l’intento di recare pregiudizio all’organizzazione ed alla struttura produttiva del concorrente (Sez. 1, 29/12/2017, n. 31203; Sez. 1, 04/09/2013, n. 20228; Sez. 1, 23/05/2008, n. 13424); nelle pronunce dei giudici di merito si è progressivamente sviluppata la ricerca di indicatori oggettivi dell’idoneità lesiva della condotta concorrenziale illecita come il vantaggio competitivo indebito, la capacità distruttiva della altrui continuità aziendale, lo choc disgregativo, non estranei alla stessa giurisprudenza più recente di questa Corte (Sez. 1, 31/03/2016, n. 6274).
E’ ben nota la particolare delicatezza del tema della concorrenza sleale per storno di dipendenti perchè in questo caso i profili della correttezza del rapporto di concorrenza commerciale tra imprenditori vengono a interferire pesantemente con diritti costituzionalmente tutelati, e non solo con il diritto alla libera iniziativa imprenditoriale (art. 41 Cost.) ma anche e soprattutto con il diritto al lavoro e alla sua adeguata remunerazione in capo ai collaboratori dell’imprenditore (artt. 4 e 36 Cost.).
La mera assunzione di personale proveniente da un’impresa concorrente non può infatti essere considerata di per sè illecita, essendo espressione del principio di libera circolazione del lavoro e della libertà d’iniziativa economica.
In sintesi, secondo la giurisprudenza, non può essere negato il diritto di ogni imprenditore di sottrarre dipendenti al concorrente, purchè ciò avvenga con mezzi leciti, quale ad esempio la promessa di un trattamento retributivo migliore o di una sistemazione professionale più soddisfacente; è indiscutibile il diritto di ogni lavoratore di cambiare il proprio datore di lavoro, senza che il bagaglio di conoscenze ed esperienze maturato nell’ambito della precedente esperienza lavorativa, lungi dal permettergli il reperimento di migliori e più remunerative possibilità di lavoro, si trasformi in un vincolo oppressivo e preclusivo della libera ricerca sul mercato di nuovi sbocchi professionali.
Per la configurazione della fattispecie residuale di illecito per “violazione del criterio della correttezza professionale” (ex art. 2598 c.c., n. 3), non è sufficiente, quanto all’elemento soggettivo, la mera consapevolezza in capo all’impresa concorrente dell’idoneità dell’atto a danneggiare l’altra impresa, ma è necessaria l’intenzione di conseguire tale risultato (animus nocendi); inoltre la condotta deve risultare inequivocabilmente idonea a cagionare danno all’azienda nei confronti della quale l’atto di concorrenza asseritamente sleale viene rivolto.
La concorrenza illecita per mancanza di conformità ai principi della correttezza non può mai derivare dalla mera constatazione di un passaggio di collaboratori da un’impresa a un’altra concorrente, nè dalla contrattazione che un imprenditore intrattenga con il collaboratore del concorrente (attività in quanto tali legittime); è necessario invece che l’imprenditore concorrente si proponga, attraverso l’acquisizione di risorse del competitore, di vanificare lo sforzo di investimento del suo antagonista, creando effetti distorsivi nel mercato; in siffatta prospettiva, assumono rilievo la quantità e la qualità del personale stornato, la sua posizione all’interno dell’impresa concorrente, la difficoltà ricollegabile alla sua sostituzione e i metodi eventualmente adottati per convincere i dipendenti a passare a un’impresa concorrente.
5.6. La sentenza impugnata ha ravvisato l’attività di storno di dipendenti (in realtà, in due casi su quattro, di collaboratori autonomi) di F.D.G., omettendo completamente di valutare il profilo – in linea oggettiva – del danno competitivo e dello choc disgregativo che esprime in questa figura sintomatica la necessaria idoneità a danneggiare l’impresa concorrente richiesta dall’art. 2598 c.c., n. 3.
Tantomeno è stata accertata la sussistenza dell’animus nocendi, necessariamente nella sua concretizzazione oggettiva, dimostrando che lo storno era stato posto in essere con modalità tali da non potersi giustificare, in rapporto ai principi di correttezza professionale, se non supponendo nell’autore l’intento di recare pregiudizio all’organizzazione ed alla struttura produttiva del concorrente.
La Corte territoriale ha omesso completamente di considerare il fatto, risultante anche dalla sentenza di primo grado, che non si era verificato un passaggio diretto dei quattro dipendenti/collaboratori da una società all’altra; che almeno tre dei quattro ex dipendenti/collaboratori di F.D.G. avevano iniziato a collaborare con As. quando il loro rapporto con F.D.G. era da tempo interrotto; che due di loro erano stati collocati in pensione; che per due di loro (e in particolare quello con il ruolo di maggior rilievo, ossia il dirigente R.) non solo non vi era stato passaggio diretto, ma era trascorso un rilevante intervallo di tempo di attività lavorativa prestata alle dipendenze di altre imprese (20 e 14 mesi); tantomeno erano state considerate le modalità di interruzione del rapporto dei collaboratori, verificando se l’interruzione era stata determinata dal recesso della stessa F.D.G. – Bem.
E’ del tutto evidente che lo storno di collaboratori non è neppur concepibile allorchè l’impresa concorrente approfitti – a maggior ragione a distanza di tempo – della disponibilità sul mercato del lavoro di risorse di personale, precedentemente dismesse dall’azienda concorrente, in difetto tanto del danno quanto dell’intenzione e della possibilità di arrecarlo.
Anche ammessa la posizione “apicale” (per vero del tutto apoditticamente attribuita anche a soggetti indicati come meri addetti alle vendite e procacciatori d’affari), o anche solo strategica, dei quattro collaboratori nell’organigramma aziendale di F.D.G. per il fatto di operare nella sua area commerciale marketing, nel sussumere la fattispecie nella figura dello storno concorrenziale illecito la Corte territoriale non avrebbe potuto prescindere nè dall’ostacolo dell’assunzione dei collaboratori stornati dopo un cospicuo intervallo di tempo dall’interruzione dei rapporti con F.D.G. e dopo rilevanti periodi di collaborazione con altre imprese, anche all’estero, nè dalla valutazione delle modalità e delle cause dell’interruzione dei rapporti predetti con l’azienda che si assume danneggiata.
5.7. La sentenza impugnata non accerta – o anche solo non prospetta – la sussistenza di manovre elusive poste in essere da As. con la complicità dei collaboratori per mascherare il passaggio diretto attraverso uno schermo artefatto, per mezzo di triangolazioni o simulazioni di rapporti contrattuali con terzi.
In effetti, al contrario, la sentenza impugnata ha escluso la prova della sussistenza di rapporti occulti o di natura concorrenziale fra As. e i quattro collaboratori, assumendo esplicitamente (pag. 13) che dal complesso delle testimonianze assunte non emergeva la prova di contatti risalenti al 2002 (ossia all’epoca della cessazione del rapporto di lavoro e collaborazione) tra i dipendenti e collaboratori e la As.; la Corte subalpina, anzi, pur dandone atto, ha giustamente affermato di dover prescindere dalle mere supposizioni, basate solo su convincimenti personali, privi di ancoraggio a fatti precisi, del teste B., ex Presidente e amministratore delegato e direttore generale di F.D.G..
5.8. La Corte di appello ha poi ignorato, nel valutare la configurabilità dello storno illecito, il grave stato di dissesto in cui si era venuta a trovare F.D.G., dipeso da una inadeguata gestione della precedente compagine societaria, in via del tutto indipendente dalla trasmigrazione di collaboratori contestata, accertato dal Tribunale di Novara e pur da essa stessa riconosciuto a pagina 18 della sentenza impugnata, allorchè ha riconosciuto che l’azienda dell’attrice “navigava già in cattive acque” e ha poi negato, rigettando la domanda risarcitoria, che il passivo accertato in sede di procedura di amministrazione straordinaria fosse riconducibile causalmente ai fatti di causa, sia pur con l’ipotetica riserva “tuttalpiù solo in parte” posta ad obiettivo del ricorso incidentale di F.D.G..
5.9. La Corte ritiene quindi che la Corte torinese sia incorsa in falsa applicazione di legge con riferimento all’art. 2598 c.c., n. 3, in tema di atti di concorrenza sleale contrari ai principi della correttezza professionale commessi per mezzo dello storno di dipendenti e/o collaboratori, che esige che l’attività distrattiva delle risorse di personale dell’imprenditore concorrente sia stata posta in essere con modalità illecite e tali da non potersi giustificare, in rapporto ai principi di correttezza professionale, se non supponendo nell’autore l’intento di recare pregiudizio all’organizzazione ed alla struttura produttiva del concorrente, disgregando in modo traumatico l’efficienza dell’organizzazione aziendale del competitore e procurandosi un vantaggio competitivo indebito.
A tal fine assumono rilievo innanzitutto le modalità del passaggio dei dipendenti e collaboratori dall’una all’altra impresa, che non può che essere diretto (ancorchè eventualmente dissimulato) per potersi configurare un’attività di storno; il verbo “stornare” significa infatti “allontanare, indirizzare su strade o direzioni diverse” e nell’accezione considerata implica quindi la deviazione del collaboratore da un’impresa all’altra; non può mai costituire storno l’assunzione di ex collaboratori di un imprenditore concorrente ormai liberi sul mercato, a meno che tale libertà non sia il frutto di artifici e simulazioni volti appunto a mascherare il passaggio dall’impresa danneggiata all’altra.
Assumono inoltre rilievo la quantità e la qualità del personale stornato, la sua posizione nell’ambito dell’organigramma dell’impresa concorrente, le difficoltà ricollegabili alla sua sostituzione e i metodi eventualmente adottati per convincere i dipendenti a passare a un’impresa concorrente.
Per altro verso la Corte di appello ha omesso di valutare alcuni fatti decisivi controversi fra le parti: la mancanza di passaggio diretto dei dipendenti e collaboratori da un’impresa all’altra; l’entità dell’intervallo temporale; la mancanza di artifici e simulazioni; le cause e le modalità di conclusione del rapporto di collaborazione con F.D.G; la situazione di difficoltà economica e finanziaria di F.D.G..
6. Con il settimo motivo di ricorso principale, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, i ricorrenti denunciano violazione o falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 244 e 253 c.p.c., perchè la Corte territoriale aveva tenuto conto delle dichiarazioni del teste B., costituenti espressione di meri convincimenti personali e, per quanto riguarda i contatti fra gli ex dipendenti e la clientela Bem., sulla base di una dichiarazione de relato senza elementi di riscontro.
La censura, in parte, appare sine materia in quanto la Corte di appello ha dichiarato di voler prescindere dai meri convincimenti personali del B.; per il resto risulta, da un lato, inammissibile in quanto volta a censurare una valutazione di merito espressa dal Giudice, e comunque ininfluente, alla luce delle considerazioni esposte nel precedente p. 5.
7. Con l’ottavo motivo di ricorso principale, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, i ricorrenti denunciano violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art. 244 c.p.c., per aver la Corte di appello ammesso il capitolo di prova avversario n. 26 nonostante che contenesse un giudizio espresso attraverso l’avverbio “occultamente”.
Il motivo è inammissibile perchè non si riferisce al contenuto della sentenza impugnata, ma semmai alla precedente ordinanza istruttoria.
Infatti l’ordinanza istruttoria relativa all’ammissione di una prova è provvedimento tipicamente ordinatorio, con funzione strumentale e preparatoria rispetto alla futura definizione della controversia, privo come tale di qualunque efficacia decisoria e quindi insuscettibile di impugnazione davanti al giudice superiore, e tanto meno di ricorso per cassazione. (Sez. 3, n. 24321 del 30/09/2008, Rv. 604798 – 01; Sez. 1, n. 1596 del 24/01/2007, Rv. 594985 – 01).
Inoltre la ricorrente non indica neppure quale affermazione o accertamento contenuto nella sentenza impugnata sia stato influenzato, per di più in modo decisivo, dalla predetta ammissione di prova orale, carenza tanto più grave in quanto la sentenza ha escluso che sia stata raggiunta la prova di rapporti occulti fra gli ex collaboratori e As..
Qualora con il ricorso per cassazione venga censurata l’ammissione, da parte del giudice del merito, di una prova in seguito regolarmente espletata è necessario che il ricorrente indichi le ragioni del carattere decisivo di tale mezzo istruttorio in ordine alla risoluzione della controversia giacchè, per il principio di autosufficienza del ricorso, il controllo della decisività della prova che si assume illegittimamente ammessa ed assunta deve essere consentito alla Corte sulla base delle deduzioni contenute nell’atto impugnatorio, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative. (Sez. 1, n. 2201 del 31/01/2007, Rv. 594921 – 01).
8. I motivi nono, decimo e undicesimo sono connessi e debbono essere pertanto affrontati congiuntamente.
8.1. Con il nono motivo di ricorso principale, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, i ricorrenti denunciano violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art. 183 c.p.c., comma 7 e comma 2 e addebitano alla Corte di appello di aver ammesso il capitolo n. 29, irrilevante, afferente la violazione del marchio Bem., fra l’altro vertente su fatto completamente nuovo, dedotto tardivamente solo con la seconda memoria ex art. 183 c.p.c., comma 6, di F.D.G..
8.2. Con il decimo motivo di ricorso principale, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, i ricorrenti denunciano violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art. 345 c.p.c., per aver accolto la domanda di F.D.G. sulla base di un documento, la brochure in lingua inglese (doc. 11) del tutto nuovo per il procedimento di appello.
8.3. Con l’undicesimo motivo di ricorso principale, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, i ricorrenti denunciano violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art. 112 c.p.c., perchè la Corte di appello aveva condannato As. a cessare l’uso nel mercato italiano ed Europeo del marchio Bem., nonostante che il tema della contraffazione di tale marchio non appartenesse al tema del contendere.
8.4. Il predetto capitolo n. 29, oggetto del nono motivo, riguardava il fatto che i signori M.M. e A.S., recatisi alla Fiera (OMISSIS) di esposizione di prodotti tessili avevano ricevuto un depliant contenente tra l’altro il numero di telefono del Dipartimento Bem. di As. e un indirizzo internet a dominio commerciale con suffisso “com” a nome Bem.
E’ pur vero che dalla sentenza impugnata (pag. 17, ultimo capoverso) risulta che la deposizione resa sul punto dall’ing. A. ha condotto all’accertamento del riferimento indebito per finalità pubblicitarie al marchio Bem. da parte della convenuta As.; tale prova è stata peraltro valorizzata in sinergia con la prova documentale n. 11, ossia il depliant a cui ha fatto riferimento il testimone, sicchè la prova, in tesi indebitamente ammessa, non sarebbe di per sè decisiva.
8.5. In ogni caso – e qui l’esame della Corte si estende necessariamente all’undicesimo motivo – la ricorrente non ha affatto dimostrato la sussistenza della mutatio libelli lamentata con riferimento al marchio Bem., la cui violazione sarebbe stata introdotta tardivamente nel giudizio.
Tale prospettazione è frutto di un equivoco tra la domanda di contraffazione del marchio di impresa, effettivamente mai proposta da F.D.G. e la domanda di inibitoria di atti di concorrenza sleale confusoria, implicante abuso di segni distintivi, che era stata proposta sin ab origine da F.D.G. al n. iii delle sue conclusioni (come indica la stessa As. a pagina 10 del ricorso), richiedendo di “ordinare ad As. di porre fine alle pratiche di sviamento di clientela attuate mediante la dolosa confusione di prodotti e la dolosa presentazione del cupro nipponico come cupro italiano Bem.”.
8.6. L’art. 2598 c.c., n. 1 – premessa la clausola di salvaguardia in ordine alla tutela specifica apprestata dalla legge a protezione dei titoli di proprietà industriale (“Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto….”) qualifica come atti di concorrenza sleale l’uso di nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente.
La norma così considera tre ipotesi di concorrenza confusoria, la prima consistente nell’adozione di nomi o segni confondibili con quelli altrui, la seconda rappresentata dall’imitazione servile di prodotti altrui e la terza atteggiantesi in termini di clausola generale, riferibile a qualsiasi atto idoneo a produrre confusione.
La prima ipotesi, tipica, si sovrappone alla tutela accordata dal Codice della proprietà industriale ai segni distintivi, fra i quali il marchio di impresa registrato, con il conseguente cumulo di tutele, peraltro parzialmente diversificate nei loro presupposti.
La repressione della concorrenza sleale confusoria esige una concreta possibilità di confusione e il rapporto concorrenziale fra gli interessati, a differenza del marchio registrato protetto su tutto il territorio nazionale anche indipendentemente dall’uso concreto effettuato.
La giurisprudenza di questa Corte, al pari della dottrina, non dubita della possibilità di cumulo fra le due tutele, ossia tra la tutela contro l’appropriazione di un marchio e la tutela presidiata dall’azione di concorrenza sleale, cosicchè, a fronte di un medesimo fatto storico, trova luogo un concorso di norme, senza incidenza sul bene della vita posto a base del giudizio, che è sempre il medesimo, essendo l’illecito dell’imprenditore concorrente unitariamente dedotto come fondamento sia di un’azione reale, a tutela dei diritti di esclusiva sul marchio, sia anche, e congiuntamente, di un’azione personale per concorrenza sleale, ove quel comportamento abbia integrato i presupposti di cui all’art. 2598 c.c. (Sez. 1, 21/06/2016, n. 12812); a fronte dell’usurpazione o contraffazione del marchio registrato da parte di un concorrente, il titolare può esercitare l’azione reale di contraffazione del marchio, che presuppone l’accertamento della confondibilità tra i segni, ma anche – congiuntamente – quella obbligatoria di repressione della concorrenza sleale, essendo tale cumulo ammissibile, sempre che quella condotta illecita, per le modalità di uso del segno, abbia creato confondibilità circa la provenienza dei rispettivi prodotti, così ricorrendo i presupposti dell’azione obbligatoria in parola (Sez. 1, 19/06/2008, n. 16647).
8.7. Il decimo motivo è inammissibile per carenza della necessaria specificità, perchè la ricorrente, che pur assume che il documento n. 11 fosse del tutto nuovo per il procedimento di appello e insiste pertanto sulla violazione dell’art. 345 c.p.c., non dimostra affatto che tale documento sia stato prodotto solo nel giudizio di appello, ovvero in primo grado tardivamente, tacendo completamente sul momento specifico della sua produzione in giudizio.
8.8. Al contrario, ambiguamente la ricorrente, a pagina 51 del ricorso, sostiene che tale brochure sarebbe stata “rispolverata” tutto a un tratto da FGDG e poi, a pagina 52, motiva la propria affermazione circa l’inammissibilità del documento non già sulla base del momento e della fase processuale in cui il documento è stato sottoposto al contraddittorio, come sarebbe stato necessario, ma piuttosto sulla sua attitudine a introdurre fatti e circostanze mai allegate in primo grado, richiedenti nuove indagini, e alla sua estraneità alle tesi difensive di controparte nel giudizio di primo grado.
In sostanza la ricorrente finisce con l’ammettere che il documento, tempestivamente prodotto, semplicemente non era stato “valorizzato” nelle avversarie argomentazioni difensive, travolgendo il principio di acquisizione processuale espresso dall’art. 115 c.p.c., alla luce di un onere di argomentazione della parte interessata che non ha diritto di cittadinanza nell’ordinamento positivo.
8.9. Non giova alla ricorrente l’invocazione della decisione della Sez. 3, 13/02/2002, n. 2076, basata sul principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, poichè, come sopra evidenziato la domanda di repressione della concorrenza sleale confusoria mediante abuso del segno distintivo Bem. era stata tempestivamente avanzata in giudizio.
9. Con il dodicesimo motivo di ricorso principale, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, i ricorrenti denunciano violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art. 2598 c.c., n. 1, per aver condannato As. a porre fine a pratiche di sviamento mediante atti confusori nonostante che pacificamente il filo di cupro fosse protetto da un brevetto ormai scaduto, in difetto di confondibilità tra i prodotti.
La censura è defocalizzata e non pertinente rispetto alla decisione, rispetto alla quale è del tutto irrilevante il tema della tutela brevettuale del filo di cupro: secondo la sentenza impugnata, l’addebito mosso ad As. ed accertato dalla Corte di appello torinese attiene all’uso del marchio Bem., quale segno distintivo utilizzato indebitamente da As. sul territorio italiano ed Europeo per contraddistinguere il filo di cupro commercializzato.
Il presupposto, non contestato da nessuna delle due parti e emergente dalla sentenza impugnata (pag. 8, primo paragrafo, pag. 9, ultimo paragrafo, pag. 10, primo paragrafo) è quello di un accordo spartitorio (ovvero di “coesistenza”) circa l’uso del marchio Bem., competente alla multinazionale giapponese As. in tutto il mondo con l’eccezione del mercato Europeo riservato alla società italiana F.D.G., già Bem.
10. Al pari del ricorso incidentale, debbono essere accolti i motivi dal 3 al 6 del ricorso principale, nei sensi di cui in motivazione, rigettati gli altri.
Consegue il rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Torino, in diversa composizione, che si atterrà al seguente principio di diritto ex art. 384 c.p.c.:
“Per la configurabilità di atti di concorrenza sleale contrari ai principi della correttezza professionale commessi per mezzo dello storno di dipendenti e/o collaboratori è necessario che l’attività distrattiva delle risorse di personale dell’imprenditore sia stata posta in essere dal concorrente con modalità tali da non potersi giustificare, in rapporto ai principi di correttezza professionale, se non supponendo nell’autore l’intento di recare pregiudizio all’organizzazione ed alla struttura produttiva del concorrente, disgregando in modo traumatico l’efficienza dell’organizzazione aziendale del competitore e procurandosi un vantaggio competitivo indebito. A tal fine assumono rilievo innanzitutto le modalità del passaggio dei dipendenti e collaboratori dall’una all’altra impresa, che non può che essere diretto, ancorchè eventualmente dissimulato, per potersi configurare un’attività di storno; la quantità e la qualità del personale stornato; la sua posizione nell’ambito dell’organigramma dell’impresa concorrente; le difficoltà ricollegabili alla sua sostituzione e i metodi adottati per indurre i dipendenti e/o collaboratori a passare all’impresa concorrente.”
P.Q.M.
La Corte:
accoglie il ricorso incidentale e il terzo, quarto, quinto, sesto motivo di ricorso principale, disattesi gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte di appello di Torino, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 17 ottobre 2019.
Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2020