Il Giudice ricusato non è parte del procedimento ma ha diritto ad essere informato dello stesso
Cass. civ. Sez. Unite, Ord., 22-07-2014, n. 16627
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Primo Presidente f.f. –
Dott. ADAMO Mario – Presidente Sezione –
Dott. BERRUTI Giuseppe Maria – Presidente Sezione –
Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Consigliere –
Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –
Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –
Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere –
Dott. DI IASI Camilla – rel. Consigliere –
Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA INTERLOCUTORIA
sul ricorso 13402/2013 proposto da:
S.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DUILIO 22, presso l’AGENZIA OMNIA SERVICE 2P S.R.L., rappresentato e difeso da sè medesimo;
– ricorrente –
contro
PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, SEGRETARIATO GENERALE DEL CONSIGLIO DI STATO E DEL CONSIGLIO DI PRESIDENZA DELLA GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA, PRESIDENTE DEL T.A.R. SARDEGNA E SEGRETARIO GENERALE DEL T.A.R. SARDEGNA, SEGRETARIO GENERALE DEL CONSIGLIO DI STATO ED IL CONSIGLIO DI PRESIDENZA DELLA GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA;
– intimati –
avverso le sentenze nn. 1974/2012, 1975/2012, 1976/2012, 1977/2012, 1981/2012, 1982/2012, 1984/2012, 1989/2012 TUTTE del CONSIGLIO DI STATO, depositate il 04/04/2012;
udito l’avvocato S.S.;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 01/07/2014 dal Consigliere Dott. CAMILLA DI IASI;
udito il P.M. il persona dell’Avvocato Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Con ricorso depositato il 24 aprile 2014 l’avvocato S. S. “nell’interesse proprio” ha presentato “interpello per astensione e, in difetto, ricorso per ricusazione” nei confronti dei Dottori M.C.F., R.R., P. C., M.V., Ma.Gi., D. P., S.G.M.R. e V.B., componenti il collegio delle sezioni unite civili che il giorno 29 aprile 2014 avrebbe dovuto decidere il ricorso proposto dal suddetto avvocato S. in proprio “per la cassazione, per motivi di giurisdizione sotto il profilo dell’eccesso di potere giurisdizionale e diniego di giustizia” di otto sentenze della quarta sezione del Consiglio di Stato con ciascuna delle quali “i cinque componenti il collegio, singolarmente ricusati, hanno deciso ex se la ricusazione a loro singolare carico” ed hanno “denegato la declaratoria di perenzione pur richiesta dal ricorrente”.
1. Sulla trattazione in contraddittorio.
Il ricorrente sostiene in ricorso che la trattazione della ricusazione “va compiuta in contraddittorio”. L’affermazione è corretta.
La giurisprudenza di questo giudice di legittimità, in passato orientata per la natura non giurisdizionale del procedimento di ricusazione, aveva affermato che l’ordinanza resa sull’istanza di ricusazione a norma dell’art. 53 c.p.c., è un provvedimento privo di portata decisoria su posizioni di diritto soggettivo e non incide sull’organo-giudice o sui suoi criteri di costituzione, essendo diretto esclusivamente, in via ordinatoria e strumentale, ed in esito ad un procedimento di tipo sostanzialmente amministrativo, ad assicurare il soddisfacimento di interessi di ordine generale ed il corretto esercizio dell’attività giudiziaria da parte del giudice (v. tra le altre Cass. n. 155 del 2000). Tuttavia le sezioni unite di questa Corte, già a partire dalla sentenza n. 17636 del 2003, hanno ritenuto che la Costituzione attribuisca a ciascuna parte il diritto soggettivo al giudice imparziale, postulandone la tutelabilità giurisdizionale, ed in particolare affermando che l’ordinanza che pronuncia sulla ricusazione ha natura decisoria, “atteso che decide su un’istanza diretta a far valere concretamente l’imparzialità del giudice, la quale costituisce non soltanto un interesse generale dell’amministrazione della giustizia, ma anche, se non soprattutto, un diritto soggettivo della parte (e ciò alla luce sia dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, sia del nuovo testodell’art. 111 Cost.)”.
Partendo dall’arresto citato, che esprime l’adesione delle sezioni unite di questa Corte ai fondamenti costituzionali e internazionali della terzietà del giudice, il collegio ritiene necessarie le seguenti precisazioni.
A differenza di quanto affermato in Cass. n. 27404 del 2008 (secondo la quale nel giudizio di ricusazione non è possibile individuare una controparte in quanto il diritto del litigante ad essere giudicato da un giudice terzo e imparziale si estrinseca solo nei confronti dell’ordinamento, “non sussistendo un contrapposto diritto del giudice a decidere la lite assegnatagli e non essendo ipotizzabile un interesse della controparte del giudizio di merito ad interferire nel giudizio di ricusazione”), occorre evidenziare che, se è vero che nel procedimento di ricusazione non esiste un “diritto” del giudice a decidere la lite assegnatagli, esiste tuttavia un “dovere” di tale giudice di non sottrarsi, se non in presenza delle situazioni specificamente considerate dal legislatore, alla decisione della controversia della quale egli risulti giudice naturale o che comunque (ove si ritenga l’art. 25 Cost. comma 1, riferito solo al giudice inteso come organo non anche come persona fisica) gli risulti “assegnata” secondo criteri tabellari predeterminati.
E’ poi ulteriormente da sottolineare che fa capo alla “controparte” del ricusante il diritto a che la controversia, in assenza delle condizioni espressamente previste dall’ordinamento, non sia sottratta al suo giudice naturale (o comunque l’interesse a che la controversia non sia indebitamente sottratta al giudice tabellarmente predeterminato), e, in ogni caso, più in generale, il diritto, costituzionalmente presidiato, ad un processo “giusto”, che, come verrà in seguito chiarito, deve ritenersi comprensivo non solo del diritto ad un giudice imparziale ma anche ad un processo di durata ragionevole, nel quale gli strumenti processuali previsti dall’ordinamento non vengano, in ipotesi, utilizzati, al di là e oltre la funzione loro propria, al fine di allungare in maniera irragionevole i tempi del processo medesimo, ovvero di perseguire, ad esempio attraverso la pretestuosa reiterazione di istanze processuali, finalità “emulative”, oppure, ancora, di “scegliersi” il giudice o anche solo di sottrarsi ad un giudice non gradito.
1a. Sull’abuso del processo.
A migliore chiarimento di quanto sopra, va precisato che è ormai acquisita una nozione comune dell’abuso del processo (civile e penale) elaborata a partire dall’altrettanto consolidata e risalente nozione generale dell’abuso del diritto, riconducibile al paradigma dell’utilizzazione di esso per finalità oggettivamente non solo diverse ma in alcuni casi perfino pregiudizievoli all’interesse in funzione del quale il diritto è riconosciuto. Il carattere generale del principio discende dal fatto che ogni ordinamento che aspiri a completezza e funzionalità deve “tutelarsi” per evitare che i diritti da esso garantiti siano esercitati o realizzati, pure a mezzo di un intervento giurisdizionale, in maniera “abusiva”, ovvero eccessiva e/o distorta. L’esigenza di individuare un limite agli abusi si estende dunque dal diritto sostanziale al processo, trascende le peculiari connotazioni dei vari sistemi, trovando ampio riscontro non solo negli ordinamenti processuali interni, ma anche in quelli sovranazionali e venendo univccamente risolta, sia a livello normativo che interpretativo, nel senso che l’uso distorto del diritto di agire o reagire in giudizio, volto alla realizzazione di un vantaggio diverso e/o contrario allo scopo per cui il diritto o la facoltà processuale sono riconosciuti, non ammette tutela (v. in particolare: per il processo civile, s.u. civ. n. 23726 del 2007 – secondo la quale l’abuso degli strumenti processuali che l’ordinamento offre alla parte nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale contrasta con i principi di correttezza e buona fede e col principio costituzionale del giusto processo-; per il processo penale, s.u. pen. n. 155 del 2011; in ambito sovranazionale, art. 35, par. 3 (a) – già 35, par. 3, e prima 27 – della Convenzione europea dei diritti dell’uomo – secondo il quale la Corte dichiara irricevibile ogni ricorso individuale presentato ai sensi dell’articolo 34 se ritiene che “il ricorso è incompatibile con le disposizioni della Convenzione o dei suoi Protocolli, manifestamente infondato o abusivo” – che, nella consolidata interpretazione della Corte di Strasburgo, consente di ritenere abusivo e perciò irricevibile il ricorso quando la condotta ovvero l’obiettivo del ricorrente siano manifestamente contrari alla finalità per la quale il diritto di ricorrere è riconosciuto – v.
esplicazione della norma divulgata dalla Corte di Strasburgo nella guida pratica sulla ricevibilità al punto 134 -; il provvedimento della CEDU del 18 ottobre 2011, Petrovic c. Serbia, ric. n. 56551/11 – in relazione al “concetto di abuso, ai sensi dell’art. 35 par. 3 della Convenzione inteso come esercizio dannoso di un diritto, per scopi diversi da quelli per i quali è previsto”-; nonchè, infine, la vasta giurisprudenza della Corte di Giustizia UE – che richiama la nozione di abuso per affermare la regola interpretativa secondo la quale chi si appelli al tenore letterale di disposizioni dell’ordinamento comunitario per far valere avanti alla Corte un diritto che confligge con gli scopi di questo, non merita che gli si riconosca quel diritto, v. in particolare sentenza 20 settembre 2007, causa C 16/05, Tum e Dari, punto 64; sentenza 21 febbraio 2006, causa C 255/02, Halifax, e altre ivi citate).
1b. Sulle concrete modalità di sviluppo del contraddittorio.
Ritenuta dunque la necessità di un effettivo contraddittorio anche nel procedimento di ricusazione (sia in relazione alla natura giurisdizionale del medesimo sia in relazione al diritto di entrambe tali parti ad un processo “giusto” – tale da intendersi quello dinanzi a un giudice imparziale, concluso in tempi ragionevoli e sviluppatosi senza “interferenze” determinate dall’uso distorto di diritti e facoltà processuali-) il collegio intende precisare che il riconoscimento di tale necessità è cosa diversa dal riconoscimento, alle parti del processo al quale la ricusazione accede, di termini in vista della trattazione della medesima.
La disciplina dettata dagli artt. 51 e 54 c.p.c., non prevede in proposito alcun termine nè opera rinvio ad altri tipi di procedimento contemplati nel codice di rito e prevedenti i termini suddetti.
Tale disciplina, non casualmente “sobria” e rigorosa, tratteggia dunque un procedimento essenziale e informale, volto a decidere rapidamente sull’istanza di ricusazione, in consonanza con la tendenziale non complessità in fatto delle questioni in discussione (siccome individuabili sulla base dell’art. 51 c.p.c.), con la natura “incidentale” del procedimento e, soprattutto, col principio di ragionevole durata del processo.
Nel procedimento di ricusazione deve quindi essere garantito il contraddittorio nel senso che le parti devono essere messe in condizione di intervenire e adeguatamente interloquire, ma ciò, ove possibile, deve accadere (salvo che specifiche caratteristiche della questione o altre situazioni peculiari prospettate dalle parti inducano il giudice ad una considerazione diversa) in tempi brevi (o brevissimi), in ogni caso senza che sia configurabile un diritto a tempi e/o termini predeterminati, non previsti dalla disciplina vigente e non compatibili con le caratteristiche e la natura del procedimento.
Tanto premesso in linea generale, occorre osservare che nella specie di stato effettivamente garantito il contraddittorio, posto che del giorno fissato per la trattazione si è disposta la comunicazione alle parti del processo nel quale è stata proposta la revocazione e che all’adunanza camerale sono intervenuti la parte istante in ricusazione ed il PG, mentre le altre parti non hanno ritenuto di intervenire.
E’ peraltro da aggiungere che nessuna delle parti ha nella specie in alcun modo affermato di non essere intervenuto – ovvero di essere intervenuto ma di non aver comunque potuto adeguatamente interloquire ù per l’incongruità del tempo a disposizione nè ha chiesto, per tale motivo, rinvio della trattazione.
2. Sull’audizione del giudice ricusato.
L’istante nel proprio ricorso deduce che in penale l’audizione del giudice ricusato viene compiuta “solo se occorre” mentre in civile “è obbligatoria” in quanto espressamente prevista dall’art. 53 c.p.c., comma 2.
L’affermazione merita alcune precisazioni.
Come già sottolineato, il giudice ricusato non è parte del procedimento di ricusazione e pertanto non è configurarle un contraddittorio nei suoi confronti, cionondimeno la sua “presenza” nel procedimento suddetto va doverosamente considerata, e ciò sotto due diversi profili, la cui mancata valutazione può ingenerare confusione in ordine alla contrapposizione tra “necessità” o “discrezionalità” dell’audizione, soprattutto ove non si chiarisca se esse siano da riferirsi al giudice della ricusazione ovvero al giudice ricusato.
Un primo profilo sotto il quale va considerata la “presenza” del giudice ricusato è senza dubbio quello lato sensu a tutela del giudice medesimo.
E’ vero che egli non è parte del procedimento di ricusazione e pertanto non può a suo riguardo venire in considerazione un contraddittorio in senso tecnico ed è vero altresì che il procedimento de quo non è e non può in alcun modo configurarsi neppure come un procedimento “a carico” del suddetto giudice, tuttavia è anche vero che l’istanza di ricusazione lo riguarda personalmente ed occorre pertanto che gli sia sempre data, se lo ritiene, la possibilità di intervenire nel procedimento per fornire la sua “versione”, precisare o chiarire alcuni aspetti della questione dedotta, o anche, eventualmente, proporre richiesta di astensione.
Sotto questo primo profilo, occorre indubbiamente sempre mettere il giudice ricusato nella condizione di conoscere della ricusazione e della data fissata per la relativa trattazione, al fine di consentirgli di essere ascoltato, se lo ritiene, dovendo pertanto concludersi che in questo caso è “obbligatorio” (per mutuare la terminologia del ricorrente) per il giudice della ricusazione consentire al giudice ricusato di essere ascoltato, ma non è “obbligatorio” per quest’ultimo farsi sentire, con la precisazione che della eventuale mancata possibilità di intervenire alla trattazione della ricusazione potrà evidentemente dolersi solo il giudice ricusato, essendo la previsione da ritenersi a sua “tutela”.
Un secondo profilo sotto il quale va considerata la presenza del giudice ricusato nel procedimento di ricusazione è quello lato sensu “istruttorio”, in quanto, pur non essendo ipotizzabile una “testimonianza” del giudice ricusato, potrebbe essere ritenuto necessario un suo “appoorto” in termini di informazioni o chiarimenti (sia il codice di procedura civile che il codice di procedura penale considerano l’eventualità di una pur sommaria istruttoria nell’ambito del procedimento di ricusazione – il primo prevedendo, all’art. 53, comma 2, l’assunzione delle prove offerte “quando occorre”, e il secondo, all’art. 41, prevedendo che la Corte decide “dopo aver assunto, se necessario, le opportune informazioni”-).
In relazione a tale secondo profilo l’audizione del giudice ricusato non può evidentemente che essere eventuale, dovendo essere disposta (tanto nel processo penale che in quello civile, secondo le norme richiamate) solo se ritenuta necessaria, ma, una volta disposta, non è ovviamente più discrezionale per il giudice ricusato, nel senso che non gli è più concesso di scegliere se farsi sentire o meno, trattandosi di un’audizione non prevista nel suo interesse ma ritenuta necessaria a finalità istruttorie.
A differenza del codice processuale penale, quello di “tutela” civile contempla entrambi i profili sopra delineati (quello di “tutela del ricusato e quello “istruttorio”) laddove, al citato art. 53, prevede che il giudice decide sulla ricusazione “udito il giudice ricusato e assunte, quando occorre, le prove offerte”.
Tanto chiarito in linea generale, occorre precisare che nella fattispecie in esame i giudici ricusati erano a conoscenza della proposta ricusazione ù in relazione alla quale non si è più tenuta l’udienza del 29.04.2014 ù e che sono stati informati per le vie brevi della data fissata per la presente trattazione, ma non hanno ritenuto di intervenire.
Deve altresì evidenziarsi che non risultano sollecitati dal ricusante incombenti istruttori comprendenti l’audizione dei giudici ricusati per informazioni o chiarimenti ed inoltre che il collegio, considerate le caratteristiche delle ricusazioni in discussione (implicanti istruttoria esclusivamente documentale) non ha ritenuto che occorresse sentire con finalità istruttorie, su specifici aspetti della vicenda, i magistrati ricusati.
3. Sulla affermazione – resa verbalmente dal ricorrente all’odierna adunanza – relativa alla fissazione, per il successivo 3 luglio, dinanzi ad un collegio di questa Corte (non a sezioni unite), della trattazione di un’istanza di ricusazione proposta dal medesimo ricorrente nei confronti, tra gli altri, della Dottoressa A. A., componente questo collegio.
In fatto, occorre rilevare che l’affermazione di cui sopra non è stata preceduta nè accompagnata da un ricorso per ricusazione nei confronti della dottoressa A. in relazione al presente procedimento e che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, “la pretesa incompatibilità di uno dei giudici che hanno composto il collegio può esser fatta valere soltanto con la ricusazione nelle forme e nei termini di cui all’art. 52 cod. proc. civ. e non dà luogo al vizio di costituzione, ravvisabile solo quando gli atti giudiziali siano posti in essere da persona estranea all’ufficio” (v. Cass. n. 21287 del 2007 e n. 16861 del 2013).
E’ peraltro da aggiungere che la semplice affermazione della esistenza di un ricorso per ricusazione proposto dalla stessa parte in altro processo (senza neppure produrre il suddetto ricorso o precisarne il contenuti) non significa di per sè allegazione dell’esistenza di motivi di ricusazione anche in procedimento diverso riguardante la medesima parte e il medesimo giudice, posto che non tutte le ipotesi di astensione obbligatoria consideratedall’art. 51 c.p.c., sono riferibili, in relazione ad un determinato giudice, a tutte le controversie riguardanti una determinata parte, riguardando alcune di esse esclusivamente singole, specifiche controversie.
4. Sulla eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 53 c.p.c., comma 1, per contrasto con gli artt. 3, 24, e 111 Cost., nella parte in cui attribuisce ad un collegio composto da soli giudici togati, senza il correttivo della presenza “quantomeno di rappresentanti della collettività”, la decisone sulle ricusazioni.
L’eccezione è manifestamente infondata.
Occorre premettere che il giudice della controversia è innanzitutto giudice della propria legittimazione a decidere. E’ pertanto suo potere ma soprattutto suo dovere procedere al controllo preventivo della propria regolare investitura e composizione, compatibilità, giurisdizione, competenza, al fine di “proteggere” il deliberato finale da possibili illegittimità.
In questa fase vanno inseriti “incidenti” come l’astensione o la ricusazione, dovendo, con particolare riguardo a quest’ultima, ritenersi che nella previsione codicistica anche le parti, pur ciascuna portatrice di propri interessi sostanziali contrapposti, contribuiscano a questa preventiva attività di controllo in vista della “protezione” del deliberato, finale ad ogni illegittimità ed in funzione dell’interesse (generale oltre che proprio) al corretto esercizio della giurisdizione.
E’ da considerarsi anche in quest’ottica la scelta del legislatore di rimettere la decisione sulla ricusazione non solo ad un giudice, ma proprio allo stesso collegio al quale appartiene il ricusato (ovviamente “privato” del medesimo), ed è anche in quest’ottica che va letta la previsione di un’astensione che non opera ipso iure ma deve necessariamente essere autorizzata dal capo dell’ufficio cui appartiene il giudice che chiede di astenersi.
Tanto chiarito sul piano generale, va altresì ribadito che nè strutturalmente nè concettualmente il procedimento di ricusazione può configurarsi come un procedimento “a carico” del giudice ricusato, e neppure un procedimento del quale egli sia “parte”, con la conseguenza che non può ritenersi fondato un generico sospetto di parzialità del giudice della ricusazione in ragione della mera “colleganza” col giudice ricusato, e perciò tanto meno dedursi l’illegittimità costituzionale della disciplina in esame nella parte in cui non prevede che la ricusazione venga giudicata (anche) da “rappresentanti della collettività”.
Peraltro, anche se il problema (a differenza di quanto accade nella specie) si ponesse in rapporto a controversie in cui il giudice fosse effettivamente parte di un processo civile oppure imputato o persona offesa ovvero danneggiato da un reato in un processo penale, il sospetto di parzialità tale da determinare un diverso trattamento delle suddette cause dovrebbe essere fondato su qualcosa di più specifico del mero rapporto di colleganza tra giudici togati, che di per sè solo considerato non autorizza una preconcetta presunzione di “favore” nei confronti del collega al punto da imporre la previsione di una diversa composizione del giudice della ricusazione, questa sì potenzialmente illegittima sotto il profilo costituzionale perchè idonea a creare ingiustificate disuguaglianze sul piano della tutela giurisdizionale, sottoponendo alcune controversie (meglio, segmenti incidentali di esse) al giudizio di giudici in certa misura “speciali”.
Il legislatore (all’art. 11 c.p.p., e art. 30 bis c.p.c.) si è posto il problema del “giudice dei giudici”, non certo in maniera generica, astratta aprioristica in relazione a tutti i giudici solo in ragione del rapporto di “colleganza”, ma con specifico riferimento al particolare rapporto dì contiguità che potrebbe crearsi tra colleghi che lavorano nel medesimo distretto, inoltre non con riferimento ad un procedimento incidentale che, come la ricusazione, non vede il magistrato nè parte nè imputato nè offeso o danneggiato dal reato, bensì con riferimento alle ipotesi di magistrati che invece sono appunto parti di un processo civile oppure assumono la qualità di imputato, persona offesa o danneggiata dal reato in un processo penale, e lo ha risolto non prevedendo che tali controversie siano decise da un giudice “speciale” o comunque “diverso”, bensì prevedendo soltanto una differente regolamentazione della competenza territoriale (un diverso “foro per le controversie riguardanti magistrati”, come recita la rubrica dell’art. 30 bis c.p.c.).
Cionondimeno la Corte costituzionale è in più riprese intervenuta a ridimensionare considerevolmente la portata del suddetto art. 30 bis c.p.c., prima, con la sentenza n. 444 del 2002, dichiarando l’illegittimità costituzionale della norma citata nella parte in cui si applica ai processi di esecuzione forzata promossi da o contro magistrati in servizio nel distretto di corte d’appello comprendente l’ufficio giudiziario competente ai sensi dell’art. 26 c.p.c., e successivamente, con la sentenza n. 147 del 2004, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’intero primo comma del citato articolo (ad eccezione della parte relativa alle azioni civili concernenti il risarcimento del danno da reato di cui sia parte un magistrato, nei termini di cui all’art. 11 c.p.p.).
In particolare, la Corte ha ritenuto l’illegittimità costituzionale della norma in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., perchè l’art. 30 bis c.p.c., si riferisce a tutte le categorie di cause civili e non solo a quelle per le quali possa riscontrarsi la medesima ragione giustificativa della regola di competenza derogatoria posta dall’art. 11 c.p.p., e, sottraendole alla normale competenza territoriale, le assoggetta ad un diverso criterio di competenza, di portata generale, solo perchè in concreto ne è parte un magistrato in servizio nel distretto del giudice ordinariamente competente.
In particolare, secondo il giudice delle leggi, l’incostituzionalità della norma in questione deriverebbe dall’assumere come preminente l’esigenza di tutelare l’imparzialità – terzietà del giudice concependola in termini del tutto astratti e generali, omettendo completamente la valutazione selettiva ritenuta necessaria per garantire alle pretese dedotte nei vari tipi di processo civile una tutela giurisdizionale pienamente correlata alle rispettive peculiarità, irragionevolmente confondendole in un’indifferenziata disciplina uniforme e così intaccando in misura rilevante il contenuto specifico che, in ciascun tipo, assume il diritto di agire e di difendersi in giudizio, sia della parte magistrato che delle altre parti.
La ragioni poste a fondamento della ritenuta illegittimità costituzionale del citato art. 30 bis c.p.c., rendono superfluo ogni ulteriore argomento in relazione alla eccezione di illegittimità costituzionale in essere, che peraltro, ripetesi, risulta proposta in relazione ad un procedimento che neppure vede il giudice come parte (ovvero imputato, persona offesa o danneggiato da reato) ed indica come “soluzione” in certa misura necessitata dai precetti costituzionali richiamati la creazione di un giudice ad hoc per le ricusazioni, composto (in parte) da estranei alla giurisdizione, o comunque da non togati e non (necessariamente) tecnici.
5. Sulla ricusazione proposta nei confronti del Dottor M. C..
Il suddetto magistrato, componente il collegio delle sezioni unite che avrebbe dovuto trattare la controversia all’udienza del 29.04.2014, risulta dal giugno scorso cessato dal servizio per raggiunti limiti di età, pertanto sulla sua ricusazione non vi è luogo a provvedere, posto che l’istanza di ricusazione è lo strumento attribuito alla parte per denunciare l’esistenza di una delle situazioni che possono fondare il sospetto di parzialità del giudice ed ha carattere strumentale rispetto alla decisione di merito, con la conseguenza che, qualora non vi sia più la possibilità che il giudice ricusato partecipi alla decisione di merito, non vi è motivo di decidere sull’istanza di ricusazione. In tal senso è concorde la giurisprudenza di questo giudice di legittimità (v. tra le altre Cass. n. 6257 del 2002 e n. 13570 del 2000, quest’ultima riferita alle ipotesi di magistrati trasferiti o in aspettativa).
6. Sui motivi di ricusazione.
Col ricorso in decisione il ricorrente ricusa i dottori R., P., Ma., S.G. e V. per aver partecipato al collegio delle s.u. che all’udienza del 14.05.2013 ha dichiarato inammissibile il ricorso n. 23861/2012 “nella considerazione per la quale avverso un atto del giudice penale viziato da nullità/inesistenza giuridica, non immediatamente impugnabile ma incidente immediatamente sul diritto di difesa non sarebbe proponibile autonoma azione di nullità/inesistenza giuridica nanti il giudice civile” nonchè nella convinzione che il regolamento di giurisdizione richiesto non sarebbe proponibile, richiamando in proposito “le tecnicamente abnormi e aberranti pronunce SSUU 26949/06 10959/05” e ignorando che il difetto di giurisdizione non era stato dedotto dal ricorrente ma dal Tribunale di Cagliari;
i Dottori R., M., D., S.G. e V. per aver partecipato al collegio delle s.u. che all’udienza del 18.12.2012 ha dichiarato inammissibili i ricorsi n. 19886/12 e n. 19883/12 nella convinzione che si trattasse di ricorsi impugnatori non consentiti laddove “si trattava di ricorsi con i quali si chiedeva la revoca (non la revocazione) di due analoghi provvedimenti anomali, di tipo amministrativo, non previsti dall’ordinamento, con i quali altri due collegi delle sezioni unite avevano (casi unici, salvo errore, nella storia giurisprudenziale Italiana) deciso di rimettere alle sezioni penali due ricorsi correttamente proposti alle sezioni civili prospettando motivatamente questioni di giurisdizione, motivazione ignorata perchè non superabile”;
il Dottor Ma. per avere, quale relatore-estensore partecipato al collegio della sezione lavoro della Corte che l’11.04.2013 ha dichiarato inammissibile il ricorso in revocazione recante il n. 2916/11 escludendo la sussistenza del denunciato errore revocatorio ex art. 395 c.p.c., n. 4, in quanto ciascuno corresponsabile (unitamente ai componenti dei relativi collegi) di pronunce anomale sulla base di considerazioni che “neppure il più sprovveduto degli studenti universitari in materia sarebbe giunto a formulare”, non spiegandosi perciò il suddetto operato se non in termini di “preconcetta posizione negativa”, deponente per “un atteggiamento di inimicizia verso l’odierno istante rilevante ex art. 51 c.p.c., comma 1, n. 3″, con la considerazione aggiuntiva che il non essersi i suddetti magistrati “astenuti dal trattare le cause che qui occupano, nonostante l’anomalo operato di cui sopra” depone per un loro “interesse personale non legittimo ex art. 51 c.p.c., comma 1, n. 1, sia pure di natura morale”.
Inoltre, in relazione al Dottor D.P. (e al dottor M.C., la cui posizione, però, in relazione a quanto sopra osservato, nella specie non rileva), l’istante deduce la pendenza dinanzi al Tribunale civile di Roma di causa promossa dal medesimo istante L. n. 117 del 1988, ex art. 2 e ss., pendenza che (come capitato di recente per altri magistrati della Corte) avrebbe dovuto indurre il suddetto magistrato ad astenersi.
Infine, in calce alla esposizione relativa a ciascuno dei giudici ricusati (escluso il Dottor M.C.), l’istante aggiunge che sarà proposta azione L. n. 117 del 1988, ex art. 2 e segg.”.
6a. Sui motivi fondati sul tenore di decisioni assunte da colleghi dei quali facevano parte i giudici ricusati (e delle relative motivazioni).
E’ indubbio che la sottrazione di una controversia al giudice “natuale” (o omunque al giudice individuato sulla base di tabelle e/o criteri predeterminati) può essere ammessa solo in ipotesi tassative e per giustificazioni rilevanti sul piano costituzionale.
Su questa base la dottrina ha in grandissima parte escluso l’interpretazione estensiva e/o analogica delle ipotesi contemplate dall’art. 51 c.p.c., e la giurisprudenza di questo giudice di legittimità ha ripetutamente affermato (ormai da circa mezzo secolo) che l’art. 51 c.p.c., enumera in maniera tassativa i casi di astensione obbligatoria del giudice, ai quali corrisponde la facoltà di ricusazione ad iniziativa delle parti (v, tra le altre già su n. 664 del 1964 e Cass. n. 2455 del 1972).
Occorre ancora precisare che i motivi di astensione obbligatoria/ricusazione di cui al citato art. 51 c.p.c., sono tradizionalmente divisi in due categorie a seconda che dipendano dal rapporto in cui il giudice si trova con l’oggetto della causa ovvero con le parti, e che le ipotesi di astensione obbligatoria (da ritenersi, per quanto sopra esposto, di stretta interpretazione) richiamano la pregressa attività del giudice solo nel caso contemplato dall’art. 51 c.p.c., comma 1, n. 4, (“l’aver il giudice conosciuto del processo in altro grado”), ipotesi che riguarda il medesimo processo e si riferisce al dato oggettivo della pregressa “conoscenza” del processo da parte del giudice.
Tanto premesso, la caratteristica del caso che ci occupa consiste nel fatto che il ricorrente denuncia come motivo di ricusazione l’inimicizia di ciascuno dei giudici ricusati nei suoi confronti ma non riferisce la “causa” della suddetta inimicizia, limitandosi a dedurre la sussistenza di essa dal “tenore” delle considerazioni esposte nelle motivazioni di alcune decisioni assunte in altri processi, dei quali esso ricorrente era parte o difensore, da collegi composti (anche) dai magistrati ricusati, e ciò perchè le suddette considerazioni sarebbero tali da non poter essere espresse neppure “dal più sprovveduto studente universitario della materia” e quindi non sarebbero spiegabili se non in termini di preconcetta “posizione” negativa, fatti, questi, “deponenti per un atteggiamento di inimicizia” verso il ricorrente medesimo. Il ricusante tra le altre richiama, a sostegno della propria tesi, l’ordinanza delle sezioni unite civili n. 12345 del 2001, secondo la quale “il giudice può essere ricusato anche in relazione al pregresso operato in altre vicende processuali nel caso di violazione grossolana e macroscopica di principi giuridici, indicativa di un esercizio della giurisdizione volto allo scopo di danneggiare la parte per ragioni di ostilità o di rancore” nonchè la sentenza della cassazione penale n. 316 del 2000, secondo la quale “la condotta endoprocessuale del giudice non impedisce la ricusazione nell’ipotesi in cui sia indice di malafede, di dolosa scorrettezza, di vero e proprio abuso della funzione da parte del giudice stesso, che finisce così per abdicare al proprio ruolo di giudice terzo e imparziale, dovendo trattarsi, quindi, di un comportamento che presenti aspetti talmente anomali e settari da doverlo considerare necessariamente, sul piano logico, manifestazione, nella sede giudiziaria, di una grave inimicizia verso l’imputato”.
In proposito è tuttavia da osservare che questa Corte di legittimità ha anche ripetutamele affermato che “solo nell’ambito del medesimo processo (e delle diverse fasi di impugnazione), ai sensi dell’art. 161 cod. proc. civ., è consentito dedurre errori, nullità, illegittimità o irregolarità in esso verificatesi, ed ove tali deduzioni intervengano in un diverso processo il giudice adito non ha il potere, neanche in via incidentale, di rilevare, dichiarare o correggere gli eventuali errori o le nullità ed illegittimità dell’altro processo” (v. da ultimo Cass. n. 22506 del 2013 e n. 1083 del 2013).
Per poter, sia pure incidentalmente, rilevare o comunque anche solo considerare “anomalie” di carattere macroscopico e grossolano relative a provvedimenti emessi in altri processi occorrerebbe dunque ipotizzare che esse siano tali da non consentire neppure più l’identificazione dell’atto come provvedimento giurisdizionale.
E’ peraltro appena il caso di rilevare che, ove anche si ritenesse possibile, nell’ambito del procedimento sulla ricusazione, un accertamento incidentale su provvedimenti pregressi del giudice ricusato riguardanti la parte ricusante, ed in tali provvedimenti fossero effettivamente riscontrabili violazioni “macroscopiche” e “grossolane”, occorrerebbe, secondo l’impostazione del ricorrente, ancora procedere, in via ulteriormente incidentale, all’accertamento della commissione di un vero e proprio rato da parte del giudice ricusato (tale dovendosi qualificare un provvedimento “anomalo” assunto sulla base di una preconcetta posizione negativa nei confronti del ricusante, in quanto dolosamente contrario ai doveri d’ufficio) e tale ulteriore accertamento incidentale dovrebbe essere effettuato sulla base di una semplice presunzione, per giunta fondata su di un solo indizio, tutt’altro che univoco (potendo per assurdo un provvedimento giuridicamente “aberrante” essere piuttosto ascrivibile ad una incapacità naturale del giudice che non a dolo, essendo peraltro verosimile che in caso di ipotetico dolo il giudice, tecnicamente provveduto, sarebbe forse attento ad evitare e/o “mascherare” violazioni di legge in modo che non risultino “macroscopiche” e/o “grossolane”). Inoltre, in via ulteriore incidentale ed in via ulteriormente presuntiva (quindi, sempre per assurdo, con una sorta di praesumptio de praesumpto), ancora una volta unico sulla base di un unico e non e non univoco indizio, il giudice della ricusazione dovrebbe accertare che il provvedimento – in ipotesi macroscopicamente dolosamente e, al contempo, dolosamente anomalo emesso dal ricusato – derivi proprio da inimicizia nei confronti del ricusante, per giunta grave.
E’ inoltre da precisare: che l’ipotetica emissione, da parte del giudice ricusato, di uno o più provvedimenti in ipotesi anomali a punto da poter essere ritenuti solo effetto di preconcetta posizione negativa nei confronti del ricusante costituirebbe in ogni caso solo il sintomo, non la “causa” dell’inimicizia; che nella specie il ricusante nulla ha dedotto in ordine alle ragioni della suddetta inimicizia, limitandosi a prospettare, come sopra esposto, solo una catena di presunzioni su fatti sintomatici, senza neppure accennare alle ragioni per le quali i diversi magistrati ricusati dovrebbero nutrire sentimenti di ostilità nei suoi confronti; che il ricusante in ricorso riferisce solo di “inimicizia” (sia pure indicata come “rilevante ex art. 51 c.p.c., comma 1, n. 3″), senza neppure allegarne la gravità, espressamente richiesta dal codice di rito.
E’ infine da evidenziare che proprio i due precedenti di questa Corte richiamati dal ricorrente precisano che “l’inimicizia deve riguardare rapporti estranei al processo, e non può, in linea di principio, consistere in comportamenti processuali del giudice, ritenuti anomali dalla parte, la quale è tenuta a indicare fatti e circostanze concrete, che rivelino l’esistenza di ragioni di rancore o di avversione” (v. su n. 12345 del 2001 cit.) e chiariscono che “la grave inimicizia del magistrato deve comunque trovare ancoraggio in dati di fatto concreti e precisi estranei alla reatà processuale, autonomi rispetto a questa, che deve solo costituire un sintomatico momento dimostrativo – per induzione – della sussistenza del citato presupposto di fatto rilevante per la ricusazione” (v. Cass. pen. n. 316 del 2000 cit.).
6b. Sul motivo di ricusazione fondato sulla allegazione della pendenza di azione di responsabilità ai sensi dellaL. n. 117 del 1988.
In relazione al Dottor D.P. (e al Dottor M. C., la cui posizione tuttavia, per quanto sopra esposto, non rileva nella specie) il ricusante deduce (anche) la pendenza di causa civile promossa ai sensi della L. n. 117 del 1988,art. 2 e ss., in relazione alla partecipazione del suddetto Dottor D. al collegio delle SU del 16.06.2009 che avrebbe, con provvedimenti anomali, rigettato numerosi ricorsi proposti dal medesimo ricorrente.
In proposito si osserva che la causa ai sensi della L. n. 117 del 1988, art. 2 e ss., non è promossa nei confronti del magistrato ma dello Stato (sia pure per ipotizzata responsabilità del suddetto magistrato) e pertanto non può ritenersi ricorrente l’ipotesi di cui all’art. 51 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto non può tecnicamente affermarsi la pendenza di una causa tra la parte ricusante e il giudice ricusato, anche in relazione a tutto quanto sopra esposto con riguardo alla tassatività delle ipotesi di astenzione obbligatoria/ricusazione previste dal citato art. 51 c.p.c., ed al divieto di interpretazione estensiva e/o analogica delle suddette previsioni.
E’ da aggiungere, peraltro, che nella specie il ricorrente non ha neppure precisato se nelle suddette cause sia stato o meno superato il vaglio di ammissibilità di cui alla citata L. n. 117 del 1988, art. 5.
A maggior ragione non può rilevare come motivo di ricusazione la precisazione in ricorso, per ciascuno dei magistrati ricusati (ad eccezione del Dottor M.C.), che l’azione di responsabilità L. n. 117 del 1998, ex art. 2, “sarà proposta”.
6c. Sulla indicazione, quale motivo di ricusazione, della mancata richiesta, da parte dei magistrati ricusati, di astenersi dal trattare le cause che qui occupano, nonostante l’anomalo pregresso operato di cui sopra, deponente per un loro “interesse personale non legittimo ex art. 51 c.p.c., comma 1, n. 1, sia pure di natura morale” (nonchè sul rilievo che la dedotta pendenza del processo L. n. 117 del 1988, ex art. 2 e ss., avrebbe dovuto – come capitato di recente per altri magistrati della Corte – indurre il Dottor D. ad astenersi).
In proposito deve innanzitutto osservarsi che, come già rilevato, il giudice ha il “dovere” di non sottrarsi alla decisione della controversia della quale risulti giudice naturale (o comunque della quale risulti assegnatario secondo criteri tabellari predeterminati) se non in presenza delle situazioni (di stretta interpretazione) specificamente considerate dal legislatore, ed ha quindi il dovere di valutare con molto rigore la sussistenza di ipotesi (obbligatorie o meno) di astensione, evitando di ricorrere ad essa in assenza dei relativi presupposti (anche e soprattutto quando alcune circostanze – ad esempio reiterazione di istanze di ricusazione infondate o annunci di azioni L. n. 177 del 1988, ex art. 2, – potrebbero in ipotesi indurre a scelte comunque più “semplici” o comunque più comode come la richiesta di astensione), ciò innanzitutto al fine di evitare che un ipotetico atteggiamento “muscolare” assunto da una delle parti nel processo possa finire per avere ragione dei principi costituzionali in materia di giurisdizione e che un possibile uso distorto del sacrosanto diritto delle parti ad un giudice terzo ed imparziale possa in ipotesi trasformarsi in strumento per sottrarsi al giudice “sgradito” e/o alla decisione.
Si osserva inoltre che, come pure già rilevato, le ipotesi di astensione facoltativa sono rimesse alla attenta valutazione del giudice medesimo e del capo del suo ufficio, mentre le ipotesi di astensione obbligatoria possono essere fatte valere dalla parte esclusivamente con l’istanza di revocazione: la parte non può quindi dolersi della mancata astensione del giudice nè, a fortiori, trarre dalla stessa elementi sintomatici a favore dell’esistenza di valide ragioni di ricusazione.
Tanto premesso sul piano generale, è in ogni caso dirimente osservare che in questa sede, sulla base di quanto fin qui esposto, si è esclusa la sussistenza di legittime ipotesi di ricusazione (quindi di astensione obbligatoria), pertanto la mancata astensione dei giudici ricusati in relazione alle circostanze dedotte nel ricorso in esame non può in alcun modo essere considerata ai fini della ricusazione proposta, tanto meno come indice indiretto di un interesse personale non legittimo, ancorchè di natura morale, trattandosi invece dell’adempimento, da parte del giudice, del dovere di non sottrarsi (in assenza dei presupposti specificamente previsti dal legislatore) alla decisione delle controversie delle quali egli risulti legittimamente assegnatario.
10. In conclusione.
Deve pertanto dichiararsi non luogo a provvedere sulla ricusazione proposta nei confronti del Dottor M.C..
Devono invece essere rigettate le ricusazioni proposte nei confronti degli altri sette magistrati sopra indicati.
Non risultando alcuna attività difensiva proveniente dalla controparte del ricusante, non vi è da provvedere sulle spese del presente procedimento incidentale.
Sulla base dell’art. 54 c.p.c., comma 2, (prevedente che con l’ordinanza con cui rigetta o dichiara inammissibile la revocazione il giudice può condannare la parte che l’ha proposta ad una pena pecuniaria non superiore ad Euro 250), ed alla luce di quanto fin qui esposto, si ritiene di condannare il ricorrente al pagamento della pena pecuniaria nella misura si Euro 100,00 per ciascuna delle ricusazioni proposte e rigettate e pertanto nella misura totale di Euro 700,00.
P.Q.M.
La Corte, a sezioni unite, dichiara non luogo a provvedere sulla ricusazione proposta nei confronti del Dottor M.C..
Rigetta le ricusazioni proposte nei confronti dei Dottori R., P., M., Ma., D., S.G. e V.. Condanna l’istante al pagamento della pena pecuniaria nella misura complessiva di Euro 700,00.
Così deciso in Roma, il 1 luglio 2014.
Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2014